L’Ungheria di Orbán spiegata a Bruxelles

Per dire che il popolo di Orbán “ha bocciato il no ai migranti” ci vuole molta ignoranza della storia europea e delle anime di un paese entrato nell’Unione per riavere la propria libertà

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Titolare “L’Ungheria boccia il no ai migranti” i servizi di apertura sul recente referendum ungherese sulle quote obbligatorie europee di ricollocamento di richiedenti asilo, come hanno fatto Il Messaggero e Il Gazzettino, dimostra una capacità di analisi politica vicina allo zero. È vero che il referendum fortemente voluto dal governo del primo ministro Viktor Orbán non ha raggiunto il quorum del 50 per cento degli aventi diritto al voto per essere valido, e questo rappresenta una sconfitta politica per il leader magiaro. Ma è altrettanto vero che fra quanti si sono recati alle urne il “no” ha ottenuto più del 98 per cento dei voti, e inoltre esiste in parlamento una maggioranza qualificata, formata dai deputati della coalizione di governo egemonizzata da Fidesz (il partito del premier) e da quelli dell’opposizione di estrema destra del partito Jobbik, disponibile a votare un emendamento alla Costituzione che vada nella direzione del “no” alla domanda su cui verteva il referendum: «Volete che l’Unione Europea abbia il potere di ordinare il ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria anche senza l’autorizzazione del Parlamento?».

La netta maggioranza degli ungheresi (sommati insieme Fidesz e Jobbik hanno raccolto il 65 per cento dei voti alle politiche del 2014), votanti al referendum o astenuti, respinge le quote obbligatorie europee. Ma molti di loro non vogliono farsi strumentalizzare da Orbán, che ha voluto il plebiscito sia per ragioni di politica interna che di politica europea, e perciò non sono andati a votare. Senz’altro non lo ha voluto per far fronte a un’incontrollabile crisi di immigrazione illegale, come quella che l’anno scorso aveva colpito l’Ungheria. Nel 2015 erano stati registrati 411.857 ingressi illegali nel paese, che avevano dato luogo a 162.700 domande di asilo. In Italia nello stesso periodo gli ingressi illegali erano stati 153.842 e i richiedenti asilo 78 mila. Ovviamente in entrambi i casi la differenza fra le due voci è data dal numero di coloro che non vogliono fermarsi nel paese, ma mirano a raggiungere il nord Europa (Germania e Svezia principalmente) e perciò non chiedono lo status di profughi. Quest’anno le cose, per quanto riguarda l’Ungheria, sono cambiate radicalmente. Nei primi tre semestri del 2016 gli ingressi di clandestini nel paese sono stati appena 18.613, il numero delle richieste d’asilo nei primi due trimestri è stato di 22.495. In Italia nei primi tre trimestri sono sbarcate 131.702 persone, mentre le richieste d’asilo nella prima metà del 2016 sono 50.020.

Mentre dunque in Ungheria sia il numero degli ingressi che quello delle richieste di asilo sono crollati, in Italia l’uno e l’altro sembrano destinati a raggiungere alla fine dell’anno cifre più alte di quelle dell’anno scorso. In particolare il numero dei richiedenti asilo alla fine dell’anno dovrebbe superare nettamente il dato del 2015, che ammontò a 78 mila, il quinto più alto in Europa. In Ungheria la proiezione del dato del primo semestre indica un totale per il 2016 inferiore ai 45 mila, che nel 2015 sarebbe stato solo l’ottavo più alto d’Europa, mentre in quell’anno con 162.700 richieste di asilo era stata il terzo paese europeo col maggior numero di aspiranti profughi dopo Germania e Svezia.

Quelle pulsioni da cavalcare
Dunque dopo l’installazione della barriera di confine con la Serbia nell’autunno del 2015 l’Ungheria non vive più una condizione di boom degli ingressi clandestini e delle richieste d’asilo. Inoltre, come ha scritto Il Foglio la settimana scorsa, «il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha rinunciato alle quote obbligatorie nella riforma di Dublino e non sembra intenzionato ad aprire procedure di infrazione contro i paesi che non vogliono accettare rifugiati da Italia e Grecia. Il vertice di Bratislava di metà settembre ha ceduto alle pressioni del gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, ndr) per sostituire alle quote obbligatorie (sistema che avrebbe previsto multe dell’importo di 250 mila euro per ogni profugo della propria quota rifiutato, ndr) il concetto di “solidarietà flessibile”: chi non può o non vuole accogliere richiedenti asilo da Italia e Grecia potrà dimostrarsi solidale inviando qualche decina di guardia-frontiere».

Nonostante questi fatti, Orbán ha tenuto il referendum, che è costato quasi 50 milioni di euro in propaganda, allo scopo di capitalizzare politicamente il sentimento euroscettico e antisistema che è in ascesa in Ungheria come in molti altri paesi dell’Unione e per togliere il terreno sotto ai piedi di quello che considera l’unico potenziale avversario pericoloso in vista delle elezioni del 2018: il partito di estrema destra Jobbik, accreditato di un 20 per cento di consensi nell’elettorato, terza forza politica nel paese dopo Fidesz (centrodestra) e la coalizione di sinistra egemonizzata dai socialisti del Mszp, accesamente xenofobo, antisemita e antirom. Orban non teme una ripresa della sinistra, divisa e ancora oggi screditata per il malgoverno del periodo 2002-2009, ma di perdere voti verso la destra radicale.

L’operazione, però, è riuscita solo per metà: il “no” alle quote obbligatorie europee di ricollocamento ha ricevuto più del 98 per cento dei voti validi, e Orbán può valorizzare il risultato facendo presente che il referendum per l’ingresso dell’Ungheria nell’Unione Europea nel 2003 registrò un tasso di partecipazione di poco più alto di quello appena svolto (45,6 per cento allora contro 43,4 per cento oggi) e un numero di consensi più basso (83,8 per cento di “sì” all’Europa allora, di fronte al 98,3 per cento di “no” alle quote obbligatorie oggi). Ma resta il fatto che il quorum per la validità legale del referendum non è stato raggiunto, e ciò equivale a un successo politico di Jobbik.

Il partito guidato da Gábor Vona ha manovrato meglio che poteva: ha fatto approvare dai suoi deputati la richiesta del governo di svolgere il referendum e ha indicato il voto per il “no”, ma contemporaneamente ha presentato in parlamento una richiesta di modifica costituzionale che introducesse nel testo della Costituzione il contenuto del quesito referendario. Il 14 settembre, meno di tre settimane prima del voto, Vona è intervenuto in parlamento per dichiarare che il referendum era stato «una decisione irresponsabile», e che in caso di mancato raggiungimento del quorum il premier Orbán «dovrà dimettersi perché porta la responsabilità personale dell’iniziativa». È probabile che a far fallire il referendum sia stato un certo astensionismo fra gli elettori di Jobbik, decisi a indebolire politicamente Orbán.

Giocare all’inglese
In secondo luogo occorre dire che la massiccia e ossessionante propaganda a favore del “no”, coi notiziari televisivi in gran parte occupati da notizie gonfiate sulla questione dell’immigrazione, si è rivelata controproducente: ha prodotto insofferenza in buona parte di un corpo elettorale abituato a individuare le distorsioni propagandistiche sin dai tempi del regime comunista.

In terzo luogo, nonostante i persistenti successi della Orbanomics (il Pil crescerà anche quest’anno, per il sesto anno di fila, con un aumento del 2,5 per cento dopo il +2,9 per cento dell’anno scorso, e anche i salari reali sono in aumento; il tasso di disoccupazione è pari al 5,6 per cento, meno della metà di quello esistente al momento in cui Orbán salì al potere; lo spread fra i titoli di Stato ungheresi e quelli americani è il più ridotto dal 2012 e Standard&Poor’s ha da poco migliorato il rating del debito ungherese portandolo a BBB-), ci sono gruppi di popolazione che preferirebbero che il governo si dedicasse di meno alla retorica anti-migranti e di più alle condizioni economiche difficili dei pensionati, il cui assegno mensile non aumenta da due anni a questa parte.

Il senso del referendum a livello di politiche europee è presto detto. Orbán cerca di prendere la testa di un fronte di paesi che farebbero con Bruxelles quello che aveva cercato di fare David Cameron: ricattare l’Unione Europea con lo spettro della Brexit per ottenere una restituzione di sovranità nazionale in deroga al principio dell’«unione sempre più stretta» fra i paesi del club di Bruxelles. All’ex primo ministro britannico l’operazione non è riuscita, perché nonostante l’accordo concluso in febbraio col Consiglio europeo gli elettori hanno preferito votare per l’uscita del Regno Unito. Orbán non ha nessuna intenzione di portare il suo paese fuori dall’Europa (in occasione del referendum britannico aveva pubblicato un’inserzione a pagamento sul Daily Mail che diceva: «La decisione spetta a voi, ma desidero che sappiate che l’Ungheria è orgogliosa di essere insieme a voi membro dell’Unione Europea»), vuole piuttosto strappare concessioni sfruttando l’ondata di sentimento anti-migranti che, da sempre intenso nei paesi dell’Est, sta crescendo anche in paesi dell’Europa occidentale come Svezia, Austria, Francia, Grecia, eccetera.

Nell’Europa dell’Est le posizioni espresse in modo provocatorio dal governo ungherese sono condivise da leader politici di destra e di sinistra: dal primo ministro della destra radicale polacca Beata Szydlo, che ha detto di non vedere «alcuna possibilità attualmente che dei migranti siano ospitati in Polonia», al post-comunista primo ministro slovacco Robert Fico, che si oppone all’arrivo di profughi perché «nel nostro paese non c’è posto per l’islam», al presidente ceco Milosˇ Zeman, socialdemocratico, che invita l’Europa a deportare i migranti economici in «luoghi spopolati del Nordafrica» o in «isole greche disabitate».

Ma che colpa abbiamo noi?
La cosa non dovrebbe stupire chi conosce un briciolo di storia: i paesi dell’Est hanno aderito all’Unione Europea e alla Nato nella speranza di esercitare in modo equilibrato la sovranità nazionale, che era stata loro confiscata prima al tempo dell’occupazione nazista e poi a quello dei regimi comunisti filo-sovietici. Inoltre nessun paese dell’Est ha un passato coloniale, e quindi non coltiva sensi di colpa verso i paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Non capiscono perché oggi dovrebbero pagare il prezzo di colpe non loro, e accettare la visione del mondo multiculturalista e immigrazionista, che è il prodotto del senso di colpa dell’Europa occidentale verso gli ex colonizzati e del rinnegamento della propria storia che è la conseguenza delle catastrofi delle due guerre mondiali.

Alcuni osservatori si chiedono come possa Orbán criticare a ogni piè sospinto la politica di Angela Merkel sulla questione dell’immigrazione e condurre la sua politica di ricatti verso l’Unione Europea, quando il 3 per cento del Pil ungherese dipende dai fondi di coesione erogati da Bruxelles e quando la Germania è il primo partner commerciale dell’Ungheria. La risposta non è difficile: buona parte dei fondi di coesione europei versati agli ungheresi tornano nelle casse di aziende tedesche per la fornitura di beni e servizi, e la Germania guadagna dall’interscambio con l’Ungheria tanto quanto ci guadagna quest’ultima. In caso di rottura delle relazioni, non ci perderebbe soltanto Budapest.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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