«Una pena rieducativa e umana. Anche per Provenzano e Savi»

È uscito il libro di Melania Rizzoli (Pdl) “Detenuti”, un viaggio in carcere attraverso le parole di prigionieri eccellenti. A tempi.it: «Anche i peggiori criminali hanno diritto alla valenza rieducativa della pena».

Melania Rizzoli, deputata del Pdl, chirurgo, fa parte della commissione d’inchiesta sugli errori sanitari. Nel suo doppio ruolo di medico e deputato ha sempre visitato le carceri italiane. Da questo lungo viaggio nell’inferno del diritto, Rizzoli ha scritto un saggio in libreria da ieri, Detenuti. Incontri e parole dalle carceri italiane (Sperling & Kupfer): in prima fila ci sono le storie di detenuti colpevoli di reati sanguinari, ancora vivi nel ricordo della società. Il libro di Rizzoli, infatti, non è solo il resoconto di ciò che accade dietro le sbarre, della condizione di quelle 67 mila persone che stanno in carceri da 45 mila posti, nel disprezzo dei più basilari elementi igienico-sanitari, ma anche di come sia andata smarrita la vera funzione della pena in Italia.

Da cosa e perché nasce il suo libro?
Io sono un medico ed entro sempre nelle carceri per controllare le condizioni sanitarie dei penitenziari. Così segnalavo tutte le incongruenze che vedevo. Ma ogni denuncia fatta al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o ai magistrati competenti del territorio, anche per patologie incompatibili con il carcere, non otteneva alcuna attenzione. Cadeva semplicemente nel vuoto. Il carcere è così: nessuno sa cosa succeda dopo un arresto, ma le persone sono sempre curiose di saperlo. Così ho fatto la cronaca di ciò che succedeva, attraverso le testimonianze di persone balzate sulle prime pagine dei giornali. Persone che raccontano anche la sofferenza drammatica che hanno vissuto. Ho chiesto sempre la liberatoria a ciascuno di questi detenuti e ho ricevuto anche molti rifiuti, ad esempio da Salvatore Riina. Il mio intento è far parlare di questo argomento troppo spesso dimenticato: il libro si apre con otto testimonianze di persone che sono state in carcere e ora sono fuori, con le loro riflessioni su ciò che ha significato per loro la pena. Tra loro tre terroristi come Giusva Fioravanti, Francesco Mambro e Sergio D’Elia.

Cosa le hanno detto?
Lo leggerete: ma posso anticipare che hanno fatto le loro riflessioni su quegli anni durissimi di carcere di cui ben otto in isolamento.

Quali altre storie l’hanno colpita?
Quella di Franco Califano, in carcere per tre anni e mezzo per droga, o di Wanna Marchi, che ora è “in articolo 21” (misura che dà la possibilità di uscire durante il giorno per lavorare e rientrare in carcere per il pernottamento, ndr) e che deve ancora scontare quattro anni. Ognuno di loro mi ha stupito perché, pur nel racconto della stessa esperienza, ha dato uno sguardo diverso del carcere, che cambia in base al carattere del singolo. In questo libro ci sono spacciatori, assassini, truffatori: uno spaccato del carcere molto provocante per il dolore di cui parla. Nel libro parlo anche di suicidi. Ho scelto le storie di personaggi noti, e non di poveri cristi, perché sono sicura che altrimenti non avrei mai trovato un editore e che il libro sarebbe passato inosservato.

Ha scelto anche criminali sanguinari: da Bernardo Provenzano a Roberto Savi (Uno Bianca). Perché proprio loro?
Roberto Savi è stato l’incontro più commovente, perché sono stata l’unica persona che lo ha visitato in 18 anni. Ho trovato un uomo sepolto vivo e questo non è degno di un paese civile, pur con tutto quello che Savi ha fatto. La visione dei suoi crimini rimane intatta, anche nel mio libro, ma nella realtà del carcere non rimane altrettanto intatta la valenza rieducativa della pena.

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