Una notte a Viareggio. Quanto mancherà all’alba?

Viareggio, 27 ottobre, notte. Viene dal mare. Da ieri sera non ha smesso un istante di soffiare: a folate rabbiose, insistenti, che scemano solo per riprendere più vigore, un istante dopo. In questo vecchio grande albergo novecentesco, luogo di fastose vacanze dei tempi andati, stanotte sembra non esserci nessuno – tranne, giù nella hall, sotto al grande lampadario di cristallo, il portiere appisolato dietro al bancone; e tu, ospite di passaggio, che nel colmo della notte apri gli occhi e non riesci più a dormire.

Cosa ti ha svegliato? La lunga fila di finestre del vecchio albergo, quando sei arrivata, era completamente buia. Davvero l’hotel è vuoto. Nemmeno un passo dai lunghi corridoi; né sul velluto cremisi del tappeto, o sui gradini delle larghe scale. Ti ha svegliato il vento: quel suo premere, allentarsi, rialzarsi ostinato, quel mugghio cieco come di un branco di bestie che si accalchino e si spingano, condotte da un istinto che non sanno, su un loro inesorabile cammino.

Viene dal mare questo grande vento, e chissà, ti dici, che mare c’è stanotte, là fuori. Nella camera dove, a rincuorarti, hai acceso un’abat-jour, le cose si allineano dignitose e composte: il letto e il comò di legno scuro, la coperta di raso, i paralumi appena ingialliti dal tempo. Fa freddo. È che il vento si insinua attraverso le fessure dei vecchi infissi, fa vibrare i vetri e perfino la porta: come se ci fosse qualcuno che, invisibile, bussa. Insonne, inquieta, vai ad aprire. Niente: lungo la interminabile passatoia bordeaux del corridoio una sequela di porte chiuse, e nessuno.

Torni a letto, guardi un po’ ansiosa l’orologio. Le tre, quasi, l’ora dell’oblio più profondo. Da lontano, un colpo secco come una fucilata ti fa trasalire. Un’imposta, certo, che sbatte forte contro un muro, in ostaggio del vento. Silenzio, adesso. Per un istante la bufera sembra essersi ammansita. Macché: di nuovo il cigolio di una persiana, e quel colpo come uno sparo. Di nuovo quel lamento scuro che viene dal mare e culmina e cala, e ritorna, più acuto. Come un coro di anime senza pace.

In un istante di quiete avverti da lontano il rombo di un treno merci che passa, sferragliando ritmicamente sui mozzi delle ruote. Quello del treno è un rumore ordinato, di macchina obbediente, ruote di ferro, lamiere, bulloni progettati e avvitati da mani di uomo. Il vento no, nessuno lo governa. E preme e cede e risale, indomabile, il suo grido nel buio.

Quanto mancherà all’alba?, ti chiedi. Non poco. Ore, prima che un sole quasi novembrino si faccia strada nell’oscurità. E senza poter riaddormentarti, agitata anche tu come le chiome delle palme del lungomare qui fuori, aspetti. (È una antica attitudine degli uomini, aspettare con ansia che sorga il sole).

Sembra un miraggio stanotte l’estate con la sabbia bollente sotto ai piedi, d’agosto, e il vociare dei bambini che armeggiano di pala e secchiello in riva al mare. Però nel tumulto della bufera riesci ad assopirti solo nel ricordo di quel caldo, di quel sole, di quel festoso mare. (Noi uomini, sembriamo geneticamente progettati, in ogni tipo di buio, per sperare).

44/2012

Exit mobile version