Un po' di numeri e verità controcorrente sugli immigrati

Il “Fact Cheking” dell'Ispi riporta alcuni dati interessanti sul fenomeno dell'immigrazione. gli sbarchi, l'accoglienza, i costi



Per il secondo anno di seguito l’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, propone un suo “Fact Cheking” della questione migrazioni, e la combinazione fra dati e riflessioni che propone contiene spunti molto interessanti. Dopo avere ricordato che negli ultimi cinque anni hanno raggiunto l’Europa in modo irregolare quasi due milioni di persone, l’Ispi segnala come gli sbarchi in Italia siano in diminuzione da tempo: nei primi quattro mesi di quest’anno sono diminuiti del 75 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, proseguendo un trend che si era manifestato già dalla metà dell’anno scorso; nel secondo semestre del 2017, infatti, gli sbarchi sono diminuiti del 75 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016. Se la tendenza dovesse proseguire, il 2018 potrebbe diventare l’anno col minor numero di sbarchi dopo il 2012. Ricordiamo i dati degli ultimi sei anni: nel 2012, quando dopo la crisi dovuta alle vicende della Primavera araba dell’anno precedente la situazione sembrava andare verso la normalizzazione, gli sbarchi nelle isole e coste italiane erano stati 13 mila; l’anno dopo però erano già saliti a 40 mila, e a ciò sarebbero seguiti tre anni di vera emergenza. Nel 2014 sono arrivate in Italia via mare 170 mila persone, nel 2015 sono state 153 mila, nel 2016 si è segnato il record con 181 mila. L’anno scorso finalmente una flessione: 119 mila sbarchi.
SBARCHI. Gli scettici fanno notare che da gennaio a fino aprile sono sbarcate in Italia solo 9.300 migranti perché si trattava di stagione invernale, e con l’estate il numero aumenterà come di consueto toccando il picco nel periodo giugno-agosto. L’Ispi però fa notare che il fenomeno migratorio non segue necessariamente un ritmo stagionale: l’anno scorso gli sbarchi fino al 15 luglio mostravano un aumento del 30 per cento rispetto all’anno precedente, poi dopo quella data sono crollati, ridimensionando il numero finale dell’anno. L’azione politica del governo italiano in Libia e in Africa ha inciso più della buona stagione.

MORTI. Con la diminuzione delle partenze dalla Libia sembra essere diminuito anche il numero dei morti e dispersi in mare: se i dati registrati a partire dalla seconda metà dell’anno scorso dovessero mantenersi costanti, passeremmo dai 3-5 mila morti annegati all’anno degli anni 2014-2016 a poco più di 1.250. L’Ispi assolve poi le Ong di soccorso in mare dall’accusa di essere diventate taxi al servizio degli scafisti: benché i salvataggi di migranti da parte di imbarcazioni delle Ong siano passati dall’1 per cento del 2014 al 41 per cento del 2016, «non esiste una correlazione tra le attività di soccorso in mare svolte dalle Ong e gli sbarchi sulle coste italiane. A determinare il numero di partenze tra il 2015 e oggi sembrano essere stati dunque altri fattori, tra cui per esempio le attività dei trafficanti sulla costa e la “domanda” di servizi di trasporto da parte dei migranti nelle diverse località libiche».

GESTIONE E SOLDI. La diminuzione degli sbarchi non ha affatto alleggerito i problemi di gestione dell’immigrazione clandestina in Italia. Fra il 2014 e il 2017 il numero dei migranti accolti in strutture temporanee o di emergenza (Cara e Cas) è passato da 45.091 a 158.821, mentre quello dei migranti inseriti nel sistema Sprar, quello cioè che dovrebbe garantire la loro integrazione in Italia, sono cresciuti soltanto da 20.975 a 24.741. L’Unione Europea continua a mostrare pochissima solidarietà con lo sforzo italiano: dei 34.953 migranti che si era impegnata a ricollocare in altri paesi (e che rappresentano appena il 10 per cento dei quasi 350 mila sbarcati in Italia fra il settembre 2015 e l’aprile 2018), solo 12.614 sono stato effettivamente trasferiti; nel 2017 l’Italia ha speso 4.363 milioni di euro per l’emergenza migranti, e dall’Europa ha ricevuto appena 77 milioni di euro.
Sempre problematica la gestione delle richieste di asilo e dei rimpatri di coloro che hanno visto respingere la propria domanda. Ai primi di gennaio del 2014 le richieste d’asilo che le autorità italiane dovevano valutare erano 15 mila: all’inizio di quest’anno erano salite a 150 mila! I tempi amministrativi italiani sono un po’ più lunghi di quelli degli altri paesi, ma non di tanto: la Svezia ci mette mediamente 13 mesi, la Germania 15, l’Italia 18. Ma la Germania dedica più risorse umane e amministrative alle richieste di asilo, e in questo modo riesce a espletare 50 mila pratiche al mese contro le appena 7 mila italiane.
RIMPATRI ED ESPULSIONI. Anche in materia di rimpatri la Germania è molto più efficiente dell’Italia: su 280.885 ordini di rimpatrio emanati fra il 2013 e il 2018 la Germania ne ha effettuati 219.470; invece l’Italia su 145.155 nello stesso periodo ne ha effettuati soltanto 28.600. Ciò dipende da vari fattori, il più importante dei quali sembra essere la nazionalità delle persone che ricevono l’ordine di tornare al paese di origine: «Tra il 2013 e il 2017 in Germania il 36% delle persone raggiunte da un provvedimento di rimpatrio proveniva da paesi balcanici come Albania e Serbia, che Berlino considera in gran parte “sicuri” e con i quali esistono accordi di rimpatrio. Questi paesi hanno inoltre tutto l’interesse a cooperare con le cancellerie europee, anche in vista di un loro possibile futuro ingresso nell’Ue. (…) All’opposto, l’Italia ha emesso decreti di espulsione in massima misura nei confronti di persone con nazionalità africana (49% Nordafrica; 18% Africa subsahariana). Roma è riuscita a sottoscrivere solo pochi accordi di riammissione con molti dei paesi africani e, anche laddove questi esistono, la loro applicazione da parte di governi e autorità locali è discontinua e disomogenea».
“GOBBA MIGRATORIA”. Infine l’Ispi getta una secchiata di acqua fredda sugli entusiasmi di quanti affermano che sia possibile frenare o arrestare il processo delle migrazioni di massa favorendo lo sviluppo economico dei paesi da cui i migranti partono: «Ricerche recenti hanno dimostrato che c’è una relazione tra il livello di sviluppo economico di un paese e il suo tasso di emigrazione netta. Ma non sempre questa relazione va a sostegno di chi pensa che per arginare i flussi migratori basti aiutare i paesi più poveri a svilupparsi. Gli esperti parlano infatti di “gobba migratoria”: man mano che il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto (ppa) di un paese povero aumenta, il tasso di emigrazione dei suoi abitanti cresce, toccando un massimo nel momento in cui il paese raggiunge un reddito medio pro capite di circa 5.000 dollari annui. Solo una volta superato quel livello di reddito, il tasso di emigrazione torna a scendere.
Nel 2016 i paesi dell’Africa subsahariana avevano un reddito pro capite medio inferiore a 3.500 dollari annui ppa e, nonostante quest’ultimo sia cresciuto del 38% tra il 2003 e il 2014, negli ultimi anni questa crescita si è interrotta e rischia addirittura di invertirsi. I paesi dell’Africa subsahariana si trovano quindi ancora a un livello di sviluppo economico coerente con un tasso di emigrazione in crescita, ed è difficile immaginare che riusciranno a raggiungere (e superare) la “gobba” dei 5.000 dollari pro capite ppa nel futuro più prossimo». Che è un po’ quello che già si sapeva: i migranti partono da paesi dove c’è già stato un certo sviluppo economico, che li ha resi coscienti dell’esistenza di un livello di ricchezza molto superiore in Europa, e desiderosi di conquistarlo. Chi vive in condizioni di povertà che lo isolano dal resto del mondo non avverte l’impulso a emigrare. Così come non lo avverte chi vive in un paese dove l’economia decolla veramente e offre opportunità a tutti.

@RodolfoCasadei


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