Un patto diabolico contro gli armeni

In Artsakh sventola la bandiera dell’Azerbaigian. Breve riassunto di una vicenda che le potenze mondiali fingono di non conoscere

Il Presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e la First Lady Mehriban Aliyeva, Baku, Azerbaigian, 27 settembre 2023 (Ansa)

Da qualche giorno sul Nagorno-Karabakh (in armeno Artsakh), sventola la bandiera dell’Azerbaigian. La cerimonia è stata organizzata nel 20° anniversario della presa del potere del presidente Ilham Aliyev dopo la morte di suo padre, per garantire la continuità del sistema autocratico del paese in cui sua moglie sarebbe poi diventata vicepresidente e la famiglia avrebbe regnato sul paese ricco di petrolio attraverso una rete di oligarchi. Il popolo dell’Azerbaigian vede, quindi, al potere una sola dinastia fin dal 1969, come si legge nel libro Armenia oggi: drammi e sfide di una nazione vivente (Guerini e Associati, 2018) del giornalista italiano Simone Zoppellaro, esperto della storia della regione.

Questo è il sistema che ha spezzato una giovane democrazia cristiana armena – l’Artsakh – dopo la lotta trentennale della piccola repubblica autoproclamata per la sua indipendenza, innescata dai pogrom anti-armeni a Sumgayit e Baku (1988-1990) dove migliaia di armeni furono espulsi o massacrati a causa della loro appartenenza etnica.

Il blocco totale dell’Artsakh

Nel settembre 2020, nel pieno dell’epidemia di Covid-19, l’Azerbaigian, con il coinvolgimento logistico di Ankara e degli jihadisti siriani reclutati per combattere gli “infedeli armeni”, nonché con il massiccio supporto tecnologico (droni e armi dell’ultima generazione) di Israele, ha attaccato la repubblica autoproclamata e ne ha tagliato l’ultimo collegamento dalla madre Armenia nel dicembre 2022, mettendo in scena un’azione “pseudo-ambientalista” e poi costruendo un check-point militare sulla strada di Lachin (Berdzor).

Con l’installazione del check-point, Baku ha difatti imposto un blocco totale agli armeni dell’Artsakh che è durato per oltre 9 mesi; durante quel periodo il dittatore azero dichiarava che la strada era «aperta [solo] per chi volesse lasciare [la regione]» e nonostante le dichiarazioni da parte delle organizzazioni internazionali e la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu volte ad aprire il corridoio di Lachin, Baku ha tenuto la regione in isolamento forzato fino al giorno dell’attacco decisivo a Stepanakert (capitale della Repubblica dell’Artsakh).

Quest’ultimo atto era premeditato e stabilito, secondo diversi analisti russi, durante l’incontro tra Erdogan e Putin il 4 settembre scorso, con un patto diabolico, proposto da Erdogan al suo collega e collaboratore principale, di non impedire con le “forze di pace russe” il nuovo attacco all’Artsakh.

L’incursione militare

E mentre il 13 settembre l’Armenia si rivolgeva al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, faceva esercitazioni congiunte Armenia-Usa e si preparava a ratificare lo Statuto di Roma – fatti che il Cremlino avrebbe condannato – il 19 settembre, Baku, avendo già il segnale di Ankara e Mosca, lanciò un’offensiva all’intero territorio rimasto sotto il controllo degli armeni dell’Artsakh, giustificando il suo attacco terroristico con l’etichetta “operazione antiterroristica”, impiegando droni e bombe a grappolo. L’incursione militare è durata due giorni, causando oltre 200 vittime e più di 400 feriti.

Gli aggressori azeri hanno perfino tolto la vita a 8 soldati del contingente di pace russo – un fatto subito perdonato dal Cremlino, come l’uccisione nel 2016 dell’Ambasciatore russo in Turchia e l’incidente dell’elicottero russo abbattuto dagli azeri durante la guerra del 2020. Perdonati, perché Erdogan e Putin avevano già un obiettivo comune: quello anti-armeno e soprattutto anti-democratico. Stroncare il modello democratico nel Caucaso del Sud.

I mille dispersi

Tra il 20 di settembre e il 2 di ottobre, a seguito della demilitarizzazione unilaterale, inizia la pulizia etnica dell’Artsakh, descritta da molti come una nuova pagina del Genocidio armeno. Oltre 100 mila persone di etnia armena fuggono verso l’Armenia per salvarsi la vita, lasciando case, tombe degli antenati, e oltre 4000 monumenti cristiani armeni. Durante il suo discorso del martedì scorso al Parlamento europeo, il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha dichiarato che 1.016 cittadini della Repubblica d’Armenia sono attualmente considerati dispersi.

Nel frattempo, il dittatore azero dichiara il suo piano di trasferire nella nuova regione conquistata 100 mila abitanti dell’Azerbaijan (turchi del Caspio) al fine di sostituire il popolo autoctono dell’Artsakh; tra l’altro, ordina di arrestare gli ufficiali dell’ex-repubblica autoproclamata presentandoli come terroristi, compreso i presidenti Arayik Harutyunyan, Bako Sahakyan e Arkadi Ghukasyan, l’ex Ministro di Stato, filantropo e co-fondatore dell’Iniziativa Umanitaria Aurora Ruben Vardanyan, l’ex ministro degli esteri Davit Babayan (volontariamente recatosi a Shushi), ufficiali dell’esercito di difesa Levon Mnatsakanyan, David Manukyan, e decine di cittadini armeni dell’Artsakh, con le false accuse di aver compiuto atti di terrorismo (invece quello di bombardare la popolazione pacifica armena non era terrorismo ma “una questione interna dell’Azerbaigian”!) Notiamo che tutti gli arresti ed i rapimenti di civili sono avvenuti allo stesso check-point di Lachin, installato dopo la messinscena pseudo-ambientalista del 2022.

La chiesa è ora moschea

Ieri, durante la cerimonia al centro di Stepanakert (ribattezzato in Khankendi), il dittatore ha celebrato la sconfitta ed il crollo della democrazia cristiana armena dell’Artsakh. Simboleggiano questi fatti la croce abbattuta nei giorni scorsi a Stepanakert dall’esercito dell’aggressore, il deturpamento dei luoghi di culto armeni, la trasformazione della Cattedrale del Santo Salvatore di Shushi in moschea, nonché  la ridenominazione di alcune strade centrali della ex-capitale dell’Artsakh in onore degli autori del Genocidio armeno del 1915. Allo stesso tempo, questa è la vittoria di una vera e propria dittatura, ma anche la sconfitta dell’Occidente inerme ed impotente, un Occidente che continua a comprare il gas russo che adesso gli arriva mediante i gasdotti dell’Azerbaigian.

L’Armenia, un avamposto di democrazia nel Caucaso del Sud, già sotto una nuova minaccia di aggressione da parte dei suoi vicini neo-ottomani, paga con il proprio sangue per il conforto dell’Europa che ormai ha puntato i riflettori dei media sul nuovo conflitto israelo-palestinese, lasciando la pulizia etnica degli armeni nelle pieghe della memoria.

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