Tu, che inseguivi le guerre

Trovare il volto degli uomini sotto le apparenze. «Era di questo che sei andato in cerca tutta la vita?». Il lascito di un grande inviato alla figlia giornalista

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Milano, agosto 1990. Tu eri morto da due mesi. Ancora uguale la tua grande casa al Sempione, la cucina in disordine, il soggiorno con i giornali vecchi sul tavolo.  L’odore di fumo e di polvere che mi erano da sempre familiari. Tutto identico, dentro il grande vuoto che avevi lasciato. Dalle tapparelle semi abbassate raggi di sole pigri nell’aria ferma.

Me ne stavo in piedi in cima a una alta scala da imbianchino, di fronte alla grande libreria che copriva una parete della tua camera da letto. Svuotarla, dovevamo, la tua casa. E anche quelle librerie alte fino al soffitto e colme fino all’inverosimile di libri stretti, impilati, vecchi, ingialliti. Molti erano libri di guerra, in francese o in inglese, sulle tante guerre che tu, inviato per il Corriere e poi per il Giornale con Montanelli, avevi seguito in oltre quarant’anni di vita. Molti altri erano libri di storia, dell’età moderna e contemporanea. E poi classici, filosofi greci, i russi, Dostoevskij, Gogol, Puskin. Quanti libri, mi dicevo su quella scala, devotamente letti, qui e là sottolineati o macchiati in un angolo di caffè – notti in bianco passate a leggere, mi immaginavo, nella stanza di un albergo in qualche paese lontano. E quanto mi pareva di avvertirti vicino, in quelle stanze abbandonate. Libri, dizionari, polvere; e quaderni fitti di appunti presi con la tua calligrafia aguzza e inquieta, su pagine ormai ingiallite. Vietnam, 1967. Praga, 1968. E pagine colme di parole scritte in fretta, quasi incomprensibili.

A me, quando ero bambina e poi ragazza, di tutto questo non raccontavi quasi niente. Non sapevamo tanto parlarci, noi due, come bloccati da una simmetrica timidezza. Forse pensavi che a una ragazzina le guerre non interessano, anzi, che non ne deve sapere nulla. Forse pensavi che ciascun figlio che nasce ricomincia da capo, ed è inutile dirgli ciò che noi abbiamo capito. Ti eri arrabbiato quando ti avevo detto che volevo fare la giornalista, mi avevi sbattuto giù il telefono. Ora capisco che temevi per me la fatica, l’ansia incalzante, la paura di non capire che ti aveva seguito per tutta la vita. O forse, lo scadimento di questo mestiere, quel vuoto che sentivi già aleggiante nelle redazioni.

Poi, quando avevi letto i miei primi pezzi su un giornale del pomeriggio, ti eri riappacificato con me. Mi avevi perdonato. A parole, non mi avevi insegnato niente. Non ti piaceva salire in cattedra. Ma io quel poco che ho imparato da te, papà, credo di averlo assorbito in certi viaggi insieme di quando ero bambina. La prima volta che mi hai portato a Venezia, in una giornata di autunno, io con gli occhi sgranati di meraviglia. Venezia del colore dell’acqua, il cielo bianco, le calli in ottobre allora silenziose. Vere di pozzi, gatti immobili a spiarci da un cantone. Tu che non parlavi e osservavi tutto, a tratti mi indicavi qualcosa, una rosa che si sporgeva da una inferriata, lo sguardo rapido di una vecchia da una finestra, dietro a una tendina. Uno sguardo sulla realtà profondo e insieme rispettoso, come se ogni dettaglio rappresentasse qualcosa, della storia degli uomini che lì erano vissuti, e meritasse dunque di essere annotato e ricordato.

Quando andavamo nelle Dolomiti, lungo la autostrada, salendo da Verona, mi facevi notare come la inclinazione dei tetti si facesse più acuta, man mano che si entrava in terre di neve. Mi mostravi il verde straordinario delle acque dell’Adige, e poi, quando la valle verso il Brennero si chiudeva, parallela ai binari della ferrovia, tacevi. E solo da grande ho capito che era perché pensavi a una tradotta militare che rientrava in patria, carica di congelati e feriti, dalle linee russe, nel marzo 1943: quando, scrivesti in quella acerba primavera, dopo tanto sangue, «l’Italia ci apparve come uno straordinario meraviglioso giardino».

Laggiù nel gelo russo
Perché, poi, tornato dal Don, per tutta la vita hai inseguito la guerra? Perché, quando rientravi in Italia sfinito da due mesi in Vietnam, nella tua stanza a casa rimanevi al buio, come chiuso in te stesso, come disadattato alla realtà nostra, borghese, di tutti i giorni? E poi di colpo ritornavi in te se il Corriere telefonava e ti spediva su un’altra guerra, e tu sparivi con la tua grossa valigia zeppa di aspirine, scatolette di carne, libri, biro e quaderni, il tuo kit di sopravvivenza per i giorni duri.

Forse, mi dico oggi, inseguivi la guerra perché, nel gelo e nella paura, laggiù in Russia, poco più che ragazzo, avevi visto il volto più vero degli uomini – senza maschere, senza infingimenti. Il volto della paura e del coraggio, della solidarietà e della viltà, dell’onore e della preghiera. Sì, forse questo hai inseguito per tutta la vita: la faccia dell’uomo, la faccia più vera.

Pensai molto a te un giorno a Tel Aviv, in un grande albergo, mentre attorno cadevano gli Scud, e la gente, bella gente elegante, con le maschere antigas in faccia si spingeva brutalmente sulle scale, verso il rifugio, e tutti sembravamo delle povere mosche, con quel muso nero sulla faccia. Ma, in un angolo del rifugio, feci amicizia con un vecchio ebreo tornato da New York, che mi raccontò, fra il rumore delle esplosioni, la storia della sua famiglia. E aveva ottant’anni e un grosso diamante all’anulare e un massiccio orologio d’oro al polso, e non avevamo apparentemente niente in comune; eppure con quella guerra attorno ci guardavamo, ci raccontavamo, e, strano, io allora nemmeno credente, lo avvertivo fratello. Era di questo, papà, che sei andato in cerca per tutta la vita?

Una sola cosa mi hai detto, del mio lavoro di giornalista, ma severa: «Ricordati, meglio un buon giornalista che un mediocre scrittore». Un duro ammonimento. A me, e tu lo capivi, scrivere piaceva. Ma fino a oggi, quasi, ho avuto paura di quelle tue parole. Solo a cinquant’anni passati ho osato scrivere, e lo dico con imbarazzo ancora, un romanzo. Chiedendomi a ogni pagina cosa ne avresti detto, e se ne saresti stato contento o deluso. È che vedi papà, quello sguardo che tu mi hai insegnato io vorrei cercare di usarlo anche in tempo di pace, nella quotidianità di ogni giorno, apparentemente banale. Vorrei cercare il nostro volto, nascosto dalle cose che sembrano da niente.

Il 9° Alpini disperso
Mi rivedo, giovane, ancora sola, in cima a quella scala davanti alla tua libreria, ventisette anni fa. Trovai scatole di tue lettere dal fronte a mia madre, che mi trafissero il cuore: tu, che mi eri sempre apparso così maturo e saggio, come mi assomigliavi invece, malinconico e inquieto, a poco più di vent’anni. Trovai una copia del tuo La ritirata di Russia, e seduta su uno scalino cominciai a sfogliarlo, senza riuscire a staccarmene. Quell’ufficiale tedesco impazzito nel gelo e nella tormenta, che cercaste di aiutare, ma che stringeva un parabellum e minaccioso delirava, «e noi lo lasciammo andare nel fumo della neve e del vento che fischiava, solo e pazzo». Quel tuo compagno ufficiale che si offrì volontario per andare a cercare, nel caos della ritirata, il 9° Alpini disperso: «Vado io, disse Nonino. Conoscevo Nonino dalla guerra di Grecia. Era dotato di una intelligenza straordinariamente analitica, aveva un viso con dei lineamenti angelici. Portarono un cavallo. Nonino non aveva mai cavalcato, due alpini lo aiutarono a issarsi. Il cavallo era bianco, aveva una gran coda. Senza che Nonino lo volesse il cavallo fece un girotondo prima di andar via, come una piccola rivista a ufficiali e soldati che stavamo a guardare a semicerchio. Nonino sorrideva. Per un attimo sembrò un giovane re davanti ai suoi ufficiali prima della battaglia. “La direzione del 9 dovrebbe essere quella”, gli dissero indicando. Il cavallo caracollò, bellissimo. Nonino non lo vide più nessuno».

Anche il volto di quel tuo compagno scomparso forse hai inseguito, da una guerra all’altra, per la vita intera? Ciò che mi hai lasciato è l’ansia di riconoscere il volto degli uomini, sotto alle apparenze. Non guarderei i passeggeri in metrò come li guardo, senza la memoria del tuo sguardo. Con rispetto ma con attenzione, sognando di poter intuire in una occhiata, nelle pieghe di una ruga, di ciascuno il desiderio più vero.

Foto Ansa

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