Trump e il funerale del quarto e quinto potere

Giornalisti e intellettuali non hanno capito nulla, ma non hanno il coraggio di ammetterlo. Lettera alla redazione

Caro direttore, ci vuole molto coraggio per stare dalla parte di Donald J. Trump senza se e senza ma. In questi giorni tutti i giornalisti, gli intellettuali, i blogger e i semplici possessori di account su Facebook si domandano sgomenti per quale oscura ragione il popolo americano abbia scelto di mandare alla Casa Bianca quel tizio di cui tutti i giornalisti, gli intellettuali, i blogger e i semplici possessori di account su Facebook scrivevano peggio che del califfo Al Baghdadi. Alcuni di loro, un sussulto di pensiero positivo, dicono che tutto sommato Trump è meno peggio della Clinton. Nessuno, tranne due o tre, prende anche solo in considerazione l’ipotesi che Trump è semplicemente meglio della Clinton e degli altri repubblicani, che dica cose giuste e che i suoi elettori lo abbiano capito. D’altra parte, i due o tre che hanno il coraggio di dare pubblicamente ragione a Trump vengono additati sia da sinistrorsi che da destrorsi, sia da statalisti che da liberisti, sia da atei che da cattolici. La brava Maria Giovanna Maglie, che questo coraggio lo ha avuto fin dall’inizio della campagna elettorale, ha confessato in un tweet che per stare dalla parte di Trump occorre molta “#resistenza al dileggio”.

Come denuncia adesso il veterano Marcello Foa, riparato in Canton Ticino, quasi tutti gli articoli sulle elezioni americane che le testate italiane hanno scodellato ai loro sempre meno numerosi lettori sembravano centoni di brani tratti da articoli apparsi sulle maggiori testate americane. In sostanza, tutti ma proprio tutti i giornalisti italiani, tranne due o tre, preferivano scopiazzare gli articoli scritti dai giornalisti americani, tutti schierati contro Trump tranne due o tre, che non prendersi il disturbo di leggere direttamente il programma di Trump e ascoltare direttamente i suoi discorsi. Se si fossero presi questo disturbo avrebbero scoperto che tutto quello che copia-incollavano dal New York Times, dal Washington Post e dal National Review era un’accozzaglia di bugie non più raffinate di quelle che raccontano i bambini (perché gli americani non sono bravi a mentire come i russi, forti di ottant’anni di esperienza sovietica). Dire che Trump è statalista in economia, isolazionista-obamiano in politica estera, protezionista contrario al libero scambio, razzista, suprematista bianco, islamofobo, sessista, omofobo e abortista è come dire che c’è un asino che vola: basta ascoltare la viva voce di Trump per qualche minuto e casca l’asino, simbolo quanto mai appropriato del partito democratico americano. Statalista uno che vuole abolire l’Obamacare, tagliare le tasse e introdurre misure degne della Reaganomics? Isolazionista uno che vuole bombardare l’Isis e mettere Cina e Corea sotto tiro? Vabbé, è inutile continuare a ripetere le stesse cose.

Il problema dei giornalistoni e degli intellettualoni americani è che le loro articolesse le leggevano i giornalistoni e gli intellettualoni italiani ma non il popolo americano. Si potrebbe obiettare che la maggior parte della gente ai giornali preferisce la televisione. Ebbene, anche tutti i giornalisti e i presentatori televisivi più famosi d’America (con in testa Megyn Kelly) tranne due anzi una (la spumeggiante Jeanine Pirro) hanno sempre messo Trump sullo stesso piano di Al Baghdadi. E si potrebbe ancora obiettare che la maggior parte della gente ai telegiornali e ai talk-show di politica preferisce i film e gli spettacoli di intrattenimento. Ebbene, tutte le più importanti trasmissioni d’intrattenimento erano schierate con la Clinton. Ad esempio, sul palco del leggendario Saturday Night Live uno pseudo-Trump quanto mai rozzo, incompetente e tonto (interpretato da Alec Baldwin) non riusciva mai a tenere testa ad una pseudo Hillary Clinton quanto mai simpatica, intelligente e brillante (interpretata da Kate McKinnon). Per il resto, Hollywood si è affrettata a sfornare in tempo reale un film sulla storia d’amore fra Barak e Michelle (Ti amo presidente) e un film in cui una donna candidata alla presidenza si batte per salvare l’America dalla barbarie (La notte del giudizio: Election Year) mentre tutti gli attoroni di Hollywood, tranne Clint Eastwood e James Woods, hanno sottoscritto appelli contro Trump. Alcuni di loro hanno perfino ventilato l’ipotesi di emigrare in Canada in caso di vittoria di Trump, poveracci.

All’indomani della vittoria di Trump, Giovanna Botteri si chiedeva sconsolata via satellite da New York: «A che serve il nostro lavoro di giornalisti se poi la gente vota diversamente?». Oltre ai giornalisti, anche tutti i presentatori, tutti i comici e tutte le stelle del cinema e della musica che hanno fatto la fila per apparire al fianco di Hillary si stanno chiedendo a che serve fare audience, sbancare al botteghino, vendere milioni di dischi se poi la gente non obbedisce ai loro ordini elettorali. Ma che diavolo sta succedendo? Da quando gli intellettuali, i giornalisti, i presentatori, i comici, gli attori e i cantanti non sono in grado di spostare i voti? Antonio Gramsci, Horkeimer & Adorno, Orson Wells (in Quarto potere), Marshall Mc Luhan, Karl Popper e quant’altri non ci hanno forse insegnato che l’industria dell’informazione (il cosiddetto quarto potere) e l’industria dell’intrattenimento sono in grado di plasmare la mentalità del popolo, orientandone le scelte politiche? Ebbene, nella lunga notte delle elezioni abbiamo assistito… al funerale del quarto potere e pure del quinto (visto che l’industria dello spettacolo è anch’essa un potere). Beppe Grillo, che ha torto su tutto in politica, non ha tutti i torti quando dice che i social-network stanno indebolendo il quarto potere.

I giornalistoni e gli intellettualoni se ne facciano una ragione: distorcere sistematicamente il senso di ogni discorso di Trump non serve a niente, se poi la gente con un semplice clic su Youtube può ascoltare direttamente i suoi discorsi per intero, per giunta senza annoiarsi nemmeno per un secondo (Trump sa intrattenere il pubblico parlando di politica meglio di quanto non sappiamo fare i comici ridicolizzando Trump). L’antipaticissima Megyn Kelly e gli altri presentatori pagati a peso d’oro dai network se ne facciano una ragione: ripetere h24 a milioni di telespettatori che Trump è razzista, sessista, islamofobo e omofobo non serve a niente, se poi gli stessi telespettatori, quando spengono il televisore, possono premere “play” su ruspanti video casalinghi pubblicati su You-Tube in cui afroamericani, afroamericane, latinoamericani, musulmani americani, gay americani e perfino musulmani gay americani spiegano che Trump non è mai stato né razzista né sessista né islamofobo né omofobo e che sarà un grande presidente.

Se i giornalistoni e gli intellettualoni d’Italia avessero trovato il tempo di guardare questi video e dare un’occhiata a quello che gli americani comuni scrivevano sui social-network, invece di perdere tempo a leggere tutti gli inutilissimi editoriali dei loro colleghi d’oltreoceano, forse all’alba del 9 novembre non sarebbero caduti dalle nuvole e forse saprebbero anche che cosa ci trovano in questo riccone gli americani a basso reddito, compresi molti musulmani americani. D’altra parte, non sono stati neppure sufficientemente svegli per accorgersi che gli stessi epiteti offensivi che oggi si affibbiano a Trump (buffone, volgare, incompetente, maschilista eccetera) nel 1980 si affibbiavano a quell’ex attore di Hollywood che poi ci avrebbe fatto il piacere di porre fine alla guerra fredda.

E invece no, non fanno mea culpa. Pure di non ammettere di essersi sbagliati, pure di salvare la faccia, continuano praticare lo sport nuovo e orrendo che hanno assiduamente praticato durante questa campagna elettorale: il tiro all’elettore di Trump, con gli insulti contundenti al posto delle pallottole. Durante la loro agonia, gli esponenti del quarto e del quinto potere sputano, imprecano e lanciano maledizioni contro il popolo votante, che li sta tumulando vivi usando internet come una pala. Quando ha capito che nella fossa ci stava scendendo anche lei, la Clinton ha cominciato a chiamare “deplorevoli” (“Basket of Deplorables”) gli elettori di Trump. Tutti i giornalisti d’America descrivevano gli elettori di Trump come Beppe Severgnini descrive i britannici pro-Brexit: vecchi falliti razzisti che vogliono rovinare la vita ai giovani fighi brillanti (in effetti ci sono molti punti di contatto fra vittoria di Trump e Brexit). Lo storico corrispondente dagli Usa Vittorio Zucconi, che nel corso della sua carriera non ha mai perso occasione per spiegare quanto stupidi sono gli yankee e quanto colto e intelligente è lui, che sul comodino tiene minimo Platone e Nietzsche, durante la campagna elettorale informava i lettori di Repubblica che a votare Trump erano “casalinghe disperate dell’Oklahoma” o “minatori del West Virginia” che alla sera non leggono né Platone né Nietzsche né gli articoli di Zucconi. Similmente Saviano notava: «Trump è il simbolo dell’America profonda, quella cafona, tracotante ed ignorante che non legge giornali né libri». Sicuramente non leggono Saviano ma Ann Coulter, come vedremo, la leggono eccome. All’antievangelico sport del tiro al prossimo che vota Trump hanno partecipato anche i giornalisti cattolici, che sparavano insulti agli americani profondi (ignoranti falliti razzisti e via andare) quando Trump vinceva nell’America profonda e poi sparavano insulti agli americani metropolitani (pagani idolatri lussuriosi avidi e via andare) quando Trump vinceva nell’America metropolitana e colta della East e della West coast. E fino all’ultimo momento (ossia fino a poco più di un mese prima, quando finalmente il loro beneamato “lying Ted” si decise ad appoggiare Trump) hanno finto di non sapere che Trump è esplicitamente anti-abortista e fieramente conservatore dal 2000 (la carta del libro America we deserve canta) e hanno finto di non capire che continuare a sparare su Trump (anti abortista) per orgoglio di parte significava sostenere la Clinton (abortista).

All’indomani della vittoria di Trump, anche gli elettori di Hillary Clinton hanno cominciato a partecipare allo sport del tiro all’elettore di Trump, ma non si limitano a tirare male parole. Da giorni, le strade di molte città americane (fra cui New York, Chicago e Los Angeles) sono paralizzate da violente manifestazioni anti-Trump segnate da atti di devastazione e saccheggio. Alcuni manifestanti non sdegnano di riservare agli elettori di Trump che incontrano durante le loro scorribande lo stesso trattamento che le squadracce fasciste riservavano agli oppositori del duce. Per il resto, l’Ansa informa che «George Soros organizza la resistenza anti-Trump. Il miliardario filantropo e altri paperoni liberal che hanno inondato con milioni la campagna elettorale di Hillary Clinton si riuniscono in una tre giorni a porte chiuse per valutare le strade con cui combattere Donald Trump». In sostanza, i democrats accettano la democrazia solo quando a vincere sono loro. Ma c’è ancora qualcuno che non sa che la sinistra è intimamente antidemocratica e sempre potenzialmente stalinista? Mentre i clintoniani in America provano a fare la loro marcia su Washington, in Italia Fabrizio Rondolino sentenzia: «Il suffragio universale comincia a rappresentare un serio pericolo per la civiltà occidentale #disaster2016» (tweet del 9 novembre). Giorgio Napolitano, quello che non aveva niente da obiettare quando i russi mandavano i carri armati in Ungheria, non è da meno: «Siamo davanti ad uno degli eventi più sconvolgenti nella storia del suffragio universale». E quando ti sovviene che anche uno dei pensatori di riferimento di Mussolini (Vilfredo Pareto) pensava che il diritto di voto spettasse a pochi eletti, ti sovviene anche Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli anti-fascisti».

Siccome non possono mandare i carri armati contro gli elettori di Trump, gli anti-fascisti d’Italia vogliono almeno provare a capirli. In questi giorni hanno fritto l’aria di tutti gli studi televisivi con prolisse analisi in cui si ripetono più volte le espressioni “voto di protesta”, “demagogia”, “populismo”, “pancia del paese”, “classe media impoverita” e “paura del diverso”. A quanto è dato capire dai loro discorsi, il “populista” sarebbe una sorta di figura mitologica che parla alla “pancia del paese”, che a seconda del contesto del discorso è ora la parte più brutta e sfigata del paese (ossia il “sottoproletariato urbano” più la “classe media impoverita”) e ora i bassi istinti di tutte le classi sociali del paese.

Qualunque talk-show decidiate di guardare, il canovaccio è sempre lo stesso. Dunque, un antifascista dice: «Noi della sinistra parliamo all’intelligenza del popolo, i populisti di destra come Trump parlano alla pancia, noi proponiamo soluzione complesse, loro propongono soluzioni semplici a problemi complessi». Un altro anti-fascista, di solito Massimo Cacciari, ribatte: «La colpa è nostra: non abbiamo saputo capire il disagio della classe media e quindi non abbiamo saputo offrire una alternativa razionale al populismo di destra». Secondo la dotta analisi di Cacciari, i populisti sarebbero riusciti a convincere la classe media impoverita che la causa di tutti i suoi mali sarebbero “i diversi” ossia gli immigrati poveri perché Cacciari stesso e gli altri sinistresi non si sarebbero impegnati abbastanza per fare capire alla classe media impoverita che la causa di ogni male al mondo sarebbe il capitalismo anzi il “turbocapitalismo” globale. Quindi secondo i sinistresi per risolvere i problemi della classe media e inaugurare un’era di fratellanza universale sotto il segno dell’Acquario è necessario sopprimere il capitalismo (ossia sopprimere la libertà economica) e abbattere tutte le frontiere, perché di immigrazione più ce ne è e meglio è. Più precisamente, la sinistra non vuole che si ponga nessun limite all’immigrazione in quanto per tradizione guarda agli occidentali autoctoni come ai “borghesi sfruttatori” da disprezzare e punire mentre guarda agli immigrati come ai “proletari sfruttati” da proteggere e risarcire (tralascio ora di spiegare che non è vero che l’Occidente sfrutta il Terzo Mondo).

E siamo al punto: per la sinistra al caviale, che vive reclusa in quartieri di lusso a parlare del bene del popolo, l’immigrazione non è un problema mentre per il popolo, che vive a stretto contatto con gli immigrati, lo è eccome. Troppo impegnati a scopiazzare il New York Times e il Washington Post, i giornalistoni-intellettualoni italiani non hanno mai trovato il tempo di dare un’occhiata a quello che scriveva Ann Coulter, che non è una casalinga disperata dell’Oklahoma ma una politologa capace soltanto di scrivere bestseller. Nei suoi libri (Adios America e In Trump we trust), nei suoi articoli e nelle sue interviste non ha fatto altro che ripeterlo in tutte le salse, fino allo sfinimento: quello che gli americani chiedono alla politica è di fermare l’immigrazione illegale e limitare quella legale. All’indomani della vittoria di Trump, la Coulter ha scritto su Twitter: «Mi chiedo se @MittRomney si rammarica per avere fatto cadere la questione dell’immigrazione quando ha ottenuto la nomination» («I wonder if @MittRomney regrets dropping the immigration issue once he got the nomination»). Trump invece non l’ha fatta cadere.

Da un anno a questa parte, Ann Coulter si fa il giro di tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche per dire quello che nessun giornalistone-intellettualone ha il coraggio di dire ma che il popolo sperimenta sulla sua pelle: che più aumenta l’immigrazione negli Usa più gli Usa perdono competitività. In ogni paese occidentale l’aumento incontrollato dell’immigrazione illegale causa sempre l’aumento dei crimini violenti, l’abbassamento dei salari e dei redditi, l’aumento della spesa pubblica, l’impoverimento della la classe media autoctona e infine il rallentamento della crescita del Pil. Il quarto potere (che per il 90 per cento è di sinistra) fa di i tutto per nascondere che, in qualunque paese occidentale, la popolazione di origine immigrata (minoranza) commette molti più crimini di quanti ne commette la popolazione autoctona (maggioranza). Il quarto potere ripete indefessamente che gli immigrati fanno i lavori che gli autoctoni non vogliono più fare, mentre la verità è che gli immigrati scippano il lavoro agli autoctoni – che per un prezzo equo sono disposti a fare qualunque lavoro – accettando salari paragonabili a quelli che gli operai ricevevano nell’Inghilterra di Dickens. Il quarto potere in sostanza nasconde che l’immigrazione illegale sta distruggendo un secolo di lotte sindacali contro lo sfruttamento dei lavoratori (lo spiega Massimo Introvigne).

Il quarto potere non fa che ripetere che la popolazione immigrata può pagare le pensioni e tenere in piedi il costoso e fallimentare stato sociale, mentre in realtà, a conti fatti, la popolazione immigrata riceve dallo stato sociale più di quanto non restituisca con le tasse. La Coulter argomenta che i governi democratici, negli Usa, finanziano indefessamente programmi di assistenza per immigrati regolari e irregolari accollandone i costi ai contribuenti americani. Da questo punto di vista non c’è nessuna differenza fra Usa e Europa: in Inghilterra, Francia, Svezia e altre nazioni gran parte degli immigrati vivono di generosi sussidi statali, mentre i presunti profughi che arrivano in Italia prima finiscono in hotel a quattro o cinque stelle con la paghetta di 30 euro al giorno e poi nelle case popolari, cui gli italiani poveri non riescono più ad accedere. In sostanza, la sinistra toglie dalle tasche degli autoctoni (distruggendo così la classe media) per mettere nelle tasche degli immigrati sperando che un domani gli immigrati, per gratitudine, votino per la sinistra. Non essendo riuscita a fare la rivoluzione, la sinistra post-marxista è costretta a importare elettori dal terzo mondo.

Ma un tragico imprevisto rovina la festa alla sinistra: gli immigrati musulmani non votano per la sinistra ma per candidati musulmani che si sono abilmente infiltrati nella sinistra. Ad esempio, le decine di migliaia di potenziali elettori che il Labour party britannico ha importato per decenni dal Pakistan hanno portato al potere un sindaco musulmano molto bravo a fingersi moderato. Oggi Londra è sostanzialmente una città a maggioranza musulmana in cui si moltiplicano le “no go areas” per i bianchi autoctoni. Se all’interno della comunità musulmana si allevano terroristi (la polizia britannica ha dichiarato di avere sventato ben 12 maxi-attentati solo negli ultimi anni), all’interno delle altre comunità immigrate proliferano gang criminali che si fanno la guerra fra di loro e spadroneggiano nei sobborghi. Mentre la Londra musulmana vota “Remain”, gli autoctoni britannici riparati in provincia, vogliono andare via da questa Europa, ormai Eurabia, che vuole costringere la Gran Bretagna ad accogliere masse crescenti di immigrati che si preparano a mettere i britannici autoctoni in minoranza e a cancellare quel che resta della cultura britannica e, per estensione, della cultura dei valori occidentali.

Le principali città della Francia, della Germania, della Svezia e di altri paesi nordici sono sempre più simili a Londra. In molte zone degli Usa la situazione non è migliore: le enclave musulmane si moltiplicano e si allargano ovunque, le grandi città sono martoriate dalla guerra fra gang suddivise su base etnica, nelle cittadine del sud spadroneggiano i criminali messicani legati ai cartelli della droga. Ma gli elettori americani si sono appena ribellati alle politiche delle porte aperte promosse dalla sinistra obamiana-clintoniana votando per Trump, che ha parlato di rimpatriare i clandestini, costruire un muro sul confine col Messico e bloccare l’immigrazione musulmana. Ann Coulter lo aveva detto e ripetuto, sempre inascoltata, che il tema dell’immigrazione è ormai il principale se non l’unico tema che sta a cuore agli elettori su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Trump è stato l’unico candidato repubblicano a dire chiaro e tondo che gli Usa, e per estensione tutto l’Occidente, hanno un problema, un enorme problema: l’immigrazione di massa dal terzo mondo sta assumendo le proporzioni di una vera e propria invasione. C’è una differenza sostanziale fra “immigrazione” e “invasione”: si chiama immigrazione quando gli immigrati dal terzo mondo vengono in Occidente per diventare occidentali, si chiama invasione quando gli immigrati del terzo mondo vengono in Occidente per trasformare l’Occidente in terzo mondo. Si chiama immigrazione quando gli immigrati rispettano gli autoctoni e la loro cultura, si chiama invasione quando gli immigrati trattano gli autoctoni come stranieri da derubare e opprimere. Pochi giorni fa si è sparato in pieno giorno a piazzale Loreto a Milano e il quarto potere non ha potuto continuare a nascondere che le pandillas sudamericane ormai si sono spartite la Milano come fosse una favela dell’America latina. Ma soprattutto, si chiama immigrazione quando gli immigrati accettano fino in fondo i valori occidentali, si chiama invasione quando gli immigrati cercano di imporre in Occidente i valori barbarici delle loro culture di appartenenza.

Il segreto di pulcinella è che in molte zone delle città europee, divenute tragiche “no go areas” per gli autoctoni, vige la sharia, che sta ai valori occidentali come la tenebra sta alla luce. A gennaio, guardando le immagini che giungevano da Colonia, abbiamo cominciato a capire che l’espressione “proteggere i confini” (“secure the borders”), che il presunto sessista Trump ha ripetuto continuamente durante tutta la campagna elettorale, significa anche e soprattutto “proteggere la libertà delle donne occidentali”. In sintesi, l’immigrazione può arricchire la civiltà occidentale, l’invasione può distruggerla. E quando la civiltà occidentale sarà distrutta, il valore della vita umana sarà distrutto e il mondo sarà distrutto.

Come una orwelliana “polizia del pensiero”, il quarto potere marchia a fuoco come “razzista” ed espone alla lapidazione chiunque osi distinguere fra immigrazione e invasione. Lo “psicocriminale” Trump ha il coraggio di esporsi alla lapidazione perché sa che quello che la psicopolizia chiama “razzismo” è in realtà “realismo”. Trump non vuole bloccare l’immigrazione: vuole bloccare l’invasione e quindi la progressiva trasformazione degli Usa in un “buco d’inferno del terzo mondo” (Coulter). Trump in sostanza vuole fare quello che in Europa nessuno vuole fare: controllare l’immigrazione affinché non diventi invasione. E controllare l’immigrazione significa in primo luogo rigettare oltre i confini chi non si impegna a rispettare noi e la nostra civiltà. Proteggere la nostra civiltà significa ragionare col cervello, non con la pancia (chi accetta di farsi invadere lui sì che ragiona con l’apparato digestivo). Da quando la psicopolizia chiama “populista” Trump, abbiamo chiaro che “populismo” significa parlare al cervello del popolo.

Foto Ansa

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