Trattativa Stato-mafia, l’episodio di Mannino e quelle omissioni del Fatto che «lasciano perplessi»

Leggendo le motivazioni della sentenza di assoluzione del generale Mori, si trovano anche episodi che coinvolgono i giornalisti del quotidiano di Travaglio. Eccoli

Mentre Marco Travaglio, dalle colonne del Fatto quotidiano, continua ad criticare le motivazioni della sentenza del tribunale di Palermo che ha assolto Mario Mori, nella lettura di quelle pagine emergono episodi e squarci interessanti, che indirettamente coinvolgono la penna di punta del Fatto. Riportiamo di seguito lo stralcio della sentenza dedicato alla testimonianza di Sandra Amurri, giornalista del Fatto che «da oltre 20 anni» come cronista «si occupa di mafia e politica», come lei stessa ha specificato in aula.

IL FATTO. Nel febbraio 2012, Amurri ha denunciato ai pm di Palermo un episodio che l’aveva inquietata, di cui sarebbe stato protagonista Calogero Mannino, considerato dalla procura palermitana (a partire dal 2012) il motore della trattativa. Amurri ha riferito che il 21 dicembre 2011 si sarebbe trovata presso il bar Giolitti di Roma, in attesa dell’arrivo di un intervistato. In quel momento, casualmente, ha ascoltato una conversazione tra due uomini, uno dei quali sarebbe stato proprio Mannino, che «con un’ansia incredibile», diceva: «Ciancimino figlio, quello cretino, di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità. Devi dire a De Mita perché ci dobbiamo mettere d’accordo, dobbiamo dare tutti la stessa versione, tu devi dire a De Mita, perché lui verrà sentito, lui».
La Amurri ha scattato tre foto col cellulare del misterioso interlocutore di Mannino, scoprendo solo dopo, grazie all’aiuto del collega Travaglio, che si trattava dell’eurodeputato campano Giuseppe Gargani. Per due mesi non ha fatto nulla, e solo a febbraio 2012 si è presentata ai pm. Poi – quando uscì la notizia dell’iscrizione del politico sul registro degli indagati – ha raccontato la vicenda sul suo quotidiano, innescando un certo bailamme sul presunto coinvolgimento di Mannino nella trattativa.

Antonio Ingroia e, a destra, Sandra Amurri, candidata nel gennaio 2013 con Rivoluzione Civile

IL TRIBUNALE. Ecco come descrivono l’episodio i giudici di Palermo: «Il Tribunale non nasconde che il racconto della Amurri possa destare qualche perplessità. Va premesso che le dichiarazioni rese alla Autorità Giudiziaria da Massimo Ciancimino avevano ricevuto vastissima risonanza sui mass media (anche in una seguitissima trasmissione televisiva – notoriamente animata anche dalla presenza del giornalista Marco Travaglio). Altrettanta e corrispondente risonanza mediatica aveva ricevuto la indicazione del Ciancimino secondo cui il referente della riferita “trattativa” Stato-mafia era stato l’ex Ministro dell’Interno sen. Nicola Mancino, esponente di spicco del partito della Democrazia Cristiana, nel quale, con posizione tutt’altro che secondaria, militavano Calogero Mannino e Giuseppe Gargani. Ora, in questo contesto, il fatto che un noto esponente politico, quale era ed è l’on. Calogero Mannino, manifestasse una viva preoccupazione per le conseguenze pregiudizievoli di alcune dichiarazioni di Ciancimino (…) a Palermo e si adoperasse perché quelle indicazioni venissero rintuzzate con una versione comune, rinviava intuitivamente ad una inchiesta giudiziaria palermitana e ad un tentativo di inquinamento. In questo quadro, la addotta ignoranza di Amurri del fatto che Mannino fosse all’epoca già indagato a Palermo in relazione alla inchiesta sulla “trattativa” appare del tutto ininfluente sul possibile rilievo dell’episodio cui la Amurri aveva assistito, che era, di per sé e senza alcuna necessità di approfondimenti, meritevole di essere immediatamente segnalato alla Autorità giudiziaria inquirente, che avrebbe potuto operare le necessarie valutazioni ed adottare le conseguenti iniziative. Non può, allora, che sorprendere il fatto che la Amurri (ma anche il Padellaro ed il Travaglio) sia rimasta inerte ed abbia atteso due mesi (fino al 24 febbraio 2012) per riferire l’episodio ai pm di Palermo e che lo abbia fatto solo quando era diventato noto (pubblicamente a mezzo stampa, ndr.) che Mannino era indagato e l’on. De Mita era stato sentito». 

«E’ DIFFICILE CREDERE». I giudici proseguono: «Del resto, genera qualche dubbio la stessa, riferita, totale incapacità di orientarsi della Amurri, che, a suo dire, da circa venti anni si occupa di politica e di mafia: sorvolando sul fatto che ella non conosceva l’on. Gargani, esponente politico piuttosto in vista (era stato responsabile del settore giustizia della Democrazia Cristiana), è difficile credere che le sia sfuggita la parte forse più eclatante delle rivelazioni del Ciancimino e che non abbia almeno immaginato il possibile nesso che la legava al dialogo cui avrebbe assistito. Ancora più difficile è credere che il Travaglio, giornalista notoriamente assai bene informato sulle inchieste che coinvolgono personaggi di spicco della vita politica del Paese e particolarmente capace di associare fatti e persone, non abbia dato alla collega Amurri alcun tipo di indicazione. Sarebbe, invero, incredibile che il predetto non abbia avuto almeno approssimativa conoscenza delle dichiarazioni del Ciancimino riguardanti il coinvolgimento di un esponente politico nella “trattativa” Stato-mafia e non abbia immediatamente colto un possibile collegamento fra le medesime dichiarazioni ed il dialogo riferito dalla Amurri. Cosicché la totale omissione di qualsivoglia indicazione lascia perplessi».
I giudici glissano su un episodio raccontato in aula dalla Amurri, che ha riferito, ancor prima di aver chiesto informazioni a Travaglio e Padellaro, di aver inviato via iPhone una foto di Gargani anche all’allora pm Antonio Ingroia.

«SI STENTA AD ARMONIZZARE». Infine il tribunale spiega perché quello di Amurri sia stato molto probabilmente un errore marchiano. Per i Giudici, la presunta ansia di Mannino non poteva essere motivata dalla recenti dichiarazioni di Ciancimino, perché «nelle fluviali dichiarazioni del Ciancimino si rintracciano appena alcuni accenni riguardanti, in sostanza, la possibilità che il medesimo, in quella turbolenta stagione, fosse un bersaglio della mafia, senza alcun coinvolgimento, vuoi diretto, vuoi indiretto, nella vicenda della trattativa».
Anche a riguardo del timore di essere scoperto come mandante della trattativa – così come ipotizzavano i pm – i giudici sono scettici: se, come l’accusa ha sostenuto (al processo Mori e continua a sostenere al processo Trattativa) Mori e De Donno avrebbero cercato coperture politiche con Martelli e Mancino per la trattativa, nel giugno 1992, non avrebbe senso che la stessa accusa sostenga al medesimo tempo che Mannino era la copertura e il movente politico della trattativa sin dal marzo 1992. I giudici concludono riguardo all’episodio Mannino che «insomma, al di là del loro esatto fondamento, si stenta ad armonizzare gli elementi di prova offerti sul punto specifico dallo stesso pm».

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