Con il loro destino sulle spalle

Quanta dignità e fierezza grida l’Appennino ridotto a macerie umane. Un viaggio appello per onorare e farsi carico di un patto fondante la Nazione

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

«Italia mia, benché ’l parlar sia indarno/ a le piaghe mortali/ che nel bel corpo tuo sí spesse veggio…»

 Così scriveva, dolente e accorato, il Petrarca circa la tormentata e miope situazione politica italiana a lui coeva. Se queste meste parole hanno purtroppo continuato spesso a riecheggiare lungo i secoli e sino a oggi nelle menti e nei cuori di tanti connazionali devoti alla causa d’Italia, esse si fanno assillanti in relazione allo sconquasso e alla distruzione lasciati dalle scosse che, tra l’agosto e l’ottobre dello scorso anno, hanno straziato Marche, Umbria e Lazio. A questo dramma si assomma per contiguità territoriale quello abruzzese aquilano, lungi dall’essere stato rimarginato, nonostante il trascorrere degli anni.

Piaghe dolorosissime e profonde attraversano il corpo della Penisola, e al disastro naturale si accompagna il dissesto economico, politico e istituzionale. Il decorso, certamente lungo, è incerto e la coperta è strettissima e lisa. La crisi non ci sta abbandonando; la tassazione è castrante; la decrescita demografica è una sciagura in pieno atto; i giovani talentuosi ampiamente emigrano (nel silenzio spietato e disinteressato dei fautori dell’accoglienza); le campagne e le montagne si svuotano progressivamente; economisti e ingegneri sociali tradiscono silenti il calcolo cinico sul costo immane di ciò che è andato perduto e che si dovrebbe ricreare, dando probabilmente per persi alcuni luoghi, storie e forme di vita; Roma frattanto versa in condizioni inverosimili. La fragilità estrema in cui ci troviamo è lampante: la si dà per appurata, per sottintesa, ma nessuno osa esplicitarla appieno. I terremotati lo sanno bene, fin nelle proprie ossa, e sanno che il futuro personale e collettivo di molti tra loro è forse giunto a una crudele svolta. Eppure tanti sono agguerriti e tenaci e, ne sono convinto, ne usciranno sì provati, ma vittoriosi.

Diventa allora preziosa una scelta individuale: recarsi nelle zone del terremoto e trascorrervi qualche giorno. Perché? Per solidarietà, anzitutto. Ma non solo: per riscoprire dignità, fierezza e coraggio, virtù energiche che la nostra attuale decadenza culturale e morale ha da troppo tempo occultato, preferendo viltà e mollezza. Questo è il pensiero che mi si è appalesato distintamente trascorrendo alcuni giorni tra Norcia, Visso, Pievebovigliana  e Muccia.

Ho rivisto Norcia, con le mura lesionate e le macerie dei venerabili baluardi transennate ai piedi della cinta muraria. Squarci tra i muri immortalano dettagli, divenuti anonimi, di vite private e di intimità profanate. È una costante dolorosa, quella della vita interrotta, divelta e fattasi esilio, che drammaticamente va da colle a colle, da paese a paese, da chiesa a rocca, da monte a valle.

Eroi a carissimo prezzo
Salgo a Castelluccio, preparandomi a una fitta al cuore. La maestosità dei Piani appenninici, l’ergersi dolce eppur austero dei monti, il verde ubiquo e la radiosità del cielo dissimulano quasi l’accaduto. So bene che Castelluccio è tale, in ampia misura, per l’ambiente naturale di eccezionale splendore, ma so altresì che, in misura necessaria e insostituibile, vi prende parte anche l’intervento dell’uomo. E il piccolo borgo è distrutto, tace il «lavoro usato».

A Castelluccio incontro Rodolfo Bertoni, il giovane imprenditore proprietario dell’agriturismo La Valle delle Aquile. Incredibilmente la sua struttura è rimasta in piedi ed è aperta. E, mentre i “grandi” discettano dei progetti temporanei di un’archistar per l’immediata ripresa di Castelluccio, lui mi parla della sua ragazza, di come sono salvi per imponderabile (e felice, nel loro caso) destino, di un matrimonio di un loro amico che verrà celebrato ad Arquata del Tronto, perché tutte queste persone vogliono vivere, e vivere nella loro terra e nei loro paesi aviti. Mi ribadisce programmatico: «Vittò, scrivi che siamo aperti e che tornino a venire qui. È fondamentale che la gente ritorni qui, altrimenti la loro solidarietà si sgretola e qui sarà ancora più dura».

La Valle delle Aquile, assieme a un’altra struttura ricettiva superstite, è aperto e non mancano i turisti, italiani e no. Gli altri ristoratori, invece, sono concentrati in un capannone dove cooperano (anzi, resistono) insieme, che accoglie e delizia gli affamati di passaggio. Lavoro sinergico, per tenacia, speranza, voglia di vivere, voglia di resistere, un debito contratto con un passato antico e amato e un impegno per il futuro. Tutti parlano, pur se immersi in altre conversazioni, di terremoto, di scosse, anche in cucina. La vita ha fatto irruzione e vi è chi scherza e sdrammatizza, anche se la stessa persona poi cancella veloce una lacrima. Non ho dubbi che Rodolfo, abbronzato e affaccendato, con il suo sorriso leale eppur velato di amarezza e preoccupazione, così come gli altri abitanti di Castelluccio, dai contadini ai pastori e ai ristoratori, siano contemporanei eroi italiani. Eroi veri, a carissimo prezzo. Prendo congedo e il congedo, almeno per me, è quello di un uomo ancora giovane che vede balenare nel suo prossimo una forza volitiva che desta ammirazione, che esige, che sprona, che commuove.

Irriducibili in roulotte
Tra borghi arroccati e incantati, ciascuno purtroppo sfregiato, attraverso nuovamente i Sibillini e taglio per Colfiorito, ritrovandomi nel Maceratese. So che sarà un altro strazio, ma voglio vedere Visso. È possibile entrare in zona rossa, se si fa il pass per bere o mangiare all’Erborista a Castelsantangelo sul Nera. Le vie interne di Visso sono sventrate, le case crepate. Castelsantangelo è una rovina unica, con ruspe che si aggirano ovunque. Manca il respiro. E qui non ci sono stati morti. Ad Arquata del Tronto e ad Amatrice le vittime sono state molte e il lutto permea ancora l’aria.

Disseminate lungo le strade, non solo qui, si incontrano delle roulotte. Sono gli irriducibili: quelli che, privi di casa, non hanno abbandonato totalmente le proprie dimore, per lo più per attendere alla cura del proprio bestiame. Ma le roulotte dicono anche altro, se si trovano dinanzi a casa abitate: la roulotte è un primo rifugio, una garanzia, un appiglio per chi ha paura… in caso di (Dio liberi!) altre scosse.

Ovunque le chiese sono danneggiate: campanili rovinati al suolo, campane sospese sui tetti, catini absidali sgretolati, facciate pericolanti. È una pena senza fine: l’Italia rurale del romanico e del primo gotico, del monachesimo e degli ordini mendicanti, l’Italia dei Signori e dei Comuni, è lesionata in luoghi oggi forse decentrati, ma all’epoca assai vitali. Un’Italia conservata amorevolmente e orgogliosamente dai suoi abitanti che oggi si affidano a noi, alla nostra coerenza, al nostro senso di concittadinanza, al nostro onorare il patto sociale fondante la Nazione.

Tutto è in bilico
Ritorno al mio “campo base”, il B&B Poggio delle Armonie a Pievebovigliana, gestito da una coppia di persone che ormai ritengo amici. Lui e lei mi hanno raccontato le loro peripezie con il terremoto. Anche loro sono eroi: eroi silenziosi. Pievebovigliana è deserta e tutto è cambiato. Il centro storico è puntellato e le “casette” per gli abitanti stanno per essere montate solo ora, dopo un autunno rigido, un inverno gelido, una primavera sfiorita e un’estate afosa già inoltrata… credo si commenti da sé. Ed è così ovunque, a macchia di leopardo. Al Poggio delle Armonie (ed è davvero tale) le camere libere sono solo due, le altre ospitano da mesi i vicini dei proprietari della “country house”. Da una finestra, la signora Agar contempla ogni mattina una frazioncina, con case lesionate e una chiesa pericolante. È casa sua, e non sa quando potrà rientrarvi, quando le diranno cosa potrà e dovrà fare, quanto costerà, quali saranno i tempi. Guarda casa dalla finestra e gli occhi le si inumidiscono. Tutto è in bilico. Tra di loro i vari ospiti hanno formato una sorta di famiglia allargata: si fanno compagnia, parlano e fanno fronte al silenzio spettrale del paese abbandonato, una volta vivace, ora spento di notte.

Quanta dignità e fierezza insegnano queste persone, senza voler impartire prediche a nessuno. Quanto male hanno sofferto e quanti disagi esperiscono ora. Quanto si sentono abbandonati, checché politici e media ne possano dire. Quanto disagio, se non rabbia, serpeggia quando sentono che i mai defunti moralisti nostrani, nobilmente eroici con i sacrifici altrui, hanno altre urgenze dispendiose e pressanti, per cui sproloquiano, si indignano e si inalberano.

Una cosa che va urlata
Se il dramma umano è enorme, con ricadute potenti sulla psiche dei singoli e sul comune sentire delle varie comunità, i danni economici fanno il resto sulla costa e nell’entroterra. Cosa resterà? L’area interessata dal sisma è enorme, eterogenea e montuosa, i comuni colpiti decine, le persone senza casa decine di migliaia. Non credo di essere in alcun modo in grado di restituire al lettore la gravità e l’urgenza della situazione. Ancor meno il travaglio umano. Sarebbe più decoroso da parte mia balbettare. Eppure c’è una cosa che va urlata: il nostro paese merita tutela, rispetto e dignità. L’Italia distrutta va ricostruita e protetta. I nostri connazionali aiutati e sorretti. Queste sono le priorità che gli italiani di buon senso rivendicano e pretendono.

Foto Ansa

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