Te Deum per il mio abbeveratoio tra le erbacce

Qui si battaglia contro le astrazioni. Come quel tizio di McCarthy, armato di scalpello e di una sorta di promessa dentro al cuore

Pubblichiamo il Te Deum scritto per il primo numero del mensile Tempi da Caterina Giojelli

Ho trovato l’abbeveratoio di pietra in mezzo alle erbacce. Non so da quanto tempo stesse lì, sicuramente da molto prima che la febbre per la penna asciutta e appassionata di Cormac McCarthy ammalasse l’intera redazione di Tempi – «Ma quell’uomo si era messo lì con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio di pietra che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? In cosa credeva quel tizio? Di certo non credeva che non sarebbe mai cambiato nulla» (Non è un paese per vecchi).
Fatto sta che l’ho trovato. Del resto è facile trovare qualcosa quando intorno è tutto erbacce. E macerie, bisogna accumularne un bel po’ per ritrovare la pietra. Te Deum laudamus per le macerie e per le erbacce.
Mi hanno detto, le anime rocciose della dorsale umile d’Italia depredata di corpi e spiriti dalle scorrerie del terremoto, che «nulla è senza sacrificio. Viviamo scoperti, in preda a grandine, siccità, alluvioni, i parti delle bestie di notte, lavoriamo ogni giorno per ore per dare a noi e ai nostri figli un posto sulla terra. E nella buona e nella cattiva sorte ci resteremo». E avevano mani callose, l’acqua in casa, la pelle bruciata dal sole, i lupi all’uscio.
Mi hanno detto, i medici del Don Orione di Bergamo, dove ci si prende cura giorno e notte di ventiquattro cosiddetti “stati vegetativi”, che «questi non sono tronchi di legno, ma uomini, e come uomini la loro vita è un mistero, capace di evolvere e sorprendere qualunque diagnosi: per questo qui si porta e condivide la fatica di ogni pezzetto integro di esistenza. Qui due persone hanno recuperato la parola contro ogni diagnosi, qui la coscienza non è tutto o niente, è ogni attimo di presenza». E avevano occhi solo per gli abitanti di quella terra di confine, la zona grigia dell’esistenza dove non esistono norme e l’unica legge che conta è quella della relazione.
Mi ha detto, l’ex governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco, che «è stato questo ad accompagnarmi negli anni e darmi forza, l’incredulità della gente comune». E aveva la voce indomita di chi si stava ancora preparando a un nuovo processo a Perugia, certo che la morale di una storia giudiziaria iniziata otto anni prima col suo arresto – cioè che i processi si fanno con le prove e non con la carta e l’inchiostro –, non era ancora stata scritta.

Le radici, le ossa e la carne umiliata
Mi ha detto, il genetista Domenico Coviello commentando il caso del piccolissimo Charlie Gard, che «desiderare che il proprio bambino viva non indica un allontanamento dalla realtà, per i suoi genitori la realtà non è un insopportabile fardello, l’hanno affrontata (e hanno sperato) anche se tutto sembrava suggerire il contrario, hanno fatto il loro mestiere». E si univa a quel piccolo popolo che disgustando i Michele Serra e Repubblica aveva raccontato al “mondo grande” la storia dei Gard, costringendolo a prendere posizione laddove si presume che tutto debba essere delegato a leggi e ordinamenti.
Mi ha detto, il fotogiornalista Franco Pagetti, attraversando i confini del mondo, le frontiere di filo spinato sulle alture del Golan, le peace-line irlandesi, le alte barriere israeliane, i muri afghani, i quartieri sciiti e sunniti a Baghdad, che «quando fischiano i proiettili dietro le orecchie e schizza sangue da tutte le parti penso solo a mia moglie Gloria, alla sua faccia. A quel volto che mi dice di tornare». E ci aveva pensato osservando le tende di Aleppo cucite e appese a mo’ di sipario tra i palazzi distrutti da madri, figlie e fidanzate dei ribelli per proteggerli dai cecchini nella città fantasma, sui pick-up dei talebani muti e armati fino ai denti a Kabul, tra i corpi rimasti a terra dopo l’atroce battaglia di Fallujah, dove di un marine gigante e buono con cui aveva condiviso razioni ed equipaggiamenti non restava che una croce di legno sull’elmetto.
E mi ha detto, lo psichiatra Eugenio Borgna, puntando il dito verso le grandi città che vanno popolandosi di “io” orfani e mutilati su cui esercitare la solidarietà come virtù mondana per antonomasia, che «possiamo accogliere la sofferenza dell’altro per editto, legge o moralismo. Ma il gesto meccanico costruisce trame disumane impossibili. Oppure possiamo farlo perché nella mendicanza dell’altro riconosciamo non solo la nostra stessa mancanza, ma anche la nostra speranza – che è esigenza metafisica dell’uomo e non pura commozione estetica –, la stessa dignità di creatura».
“Mi hanno detto”: e per questo dico Te Deum laudamus per le macerie e le erbacce, dove affonda le sue grosse radici la battaglia per la vita contro ogni astrazione. Dove le ossa e la carne umiliata dei terremotati, gli ammalati, i perseguitati dalla giustizia, i bimbi piccolissimi, le donne in guerra, i dimenticati della società iperconnessa, ci ricordano di avere iscritto in ognuno di noi ciascun principio e ciascuna fine, e ogni accidente è vinto da una realissima speranza. Dove proprio nulla ci distrae e ci allontana dalla realtà, dall’evidenza del mistero della vita e delle sue apparenti e disumane casualità. Dove si battaglia per il miracolo dell’esistenza assaltando e scolpendo la pietra di domande e certezze: da qui non ce ne andremo, qui si prende ogni pezzetto integro di esistenza, qui si affronta la realtà, qui un volto ci ricorda di tornare, qui tutti abbiamo una speranza da edificare così che erbacce e macerie non abbiano a imboscarla e seppellirla in pancia a nuovi oggetti, produzioni, e presunte giustizie sociali. Dove vengono scalpellate solide eredità, per non perdere l’altro, per non perdere la faccia, per non perdere la memoria. Dove non si arretra mai. Perché, mi sono chiesta mentre così mi dicevano, in cosa credevano e credono queste persone?

L’ascia degli zucconi
Allora è stato facile, con queste domande, trovare quest’anno l’abbeveratoio di pietra. È sempre stato lì, e tutto intorno è sempre stato un picchiettare come di mazzuoli e martelline, quando non di fragorosi colpi d’ascia, sulle tastiere, un vociare di accenti e dialetti italiani diversi di maestri, manovali e volontari venuti a prestare il loro aiuto chi per caso, chi allo sbando, chi per fede e chi per devozione all’opera al centro di quel lavorìo. Da più di vent’anni una cortina umana si avvicenda intorno allo stesso luogo precisissimo che mi ha dato d’incontrare, ogni singolo anno, tutti questi “mi hanno detto”. Con la stessa realissima speranza. Per questo scrivo il mio Te Deum in mezzo a loro, quegli zucconi di Tempi che non arretrano mai, catalizzati da un’inevitabile simpatia per l’unico futuro possibile all’uomo e alla sua storia, seduti come quel tizio di McCarthy, con la penna e lo scalpello, anche dopo cena, «e l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe di più». È davvero la cosa che mi piacerebbe di più.

Post Scriptum. Rendete grazie al Cielo per le chiese, le cappelle, i villini, la gente ordinaria, le pozzanghere, le pentole e i tegami, i bastoni, i cenci, gli ossi, e le tende a pallini, scriveva Chesterton, e così mi ha scritto un vecchio amico chestertoniano come augurio di buona avventura per il futuro di Tempi rammentando Le avventure di un uomo vivo: «Mi raccomando, Cate, bastoni, cenci, ossi, tende, tende a pallini». Erbacce, ho ribadito anche a lui, Te Deum laudamus per le erbacce. Perché quest’anno le guarderemo con uno strano coraggio.

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