Te Deum laudamus per quelle lavatrici da undici chili

In quindici in famiglia, tra calcoli errati e conti giusti, borse di ginnastica e calcio, gite al mare e in ospedale, non ci è risparmiato nulla della grazia e della fatica di “amare così tanto”

Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 29 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti) e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2016 Tempi ospita i contributi di Benedict Nivakoff, Alex Schwazer, Rone al-Sabty, Ilda Casati, Luigi Amicone, Siobhan Nash-Marshall, Tiziana Peritore, Therese Kang Mi-jin, Anba Macarius, Roberto Perrone, Pier Giacomo Ghirardini, Farhad Bitani, Maurizio Bezzi, Renato Farina, Pippo Corigliano, padre Aldo Trento, Mauro Grimoldi. Il prossimo numero di Tempi sarà in edicola da giovedì 12 gennaio 2017.

Te deum laudamus per averci insegnato a fare i conti con la realtà incalcolabile. Conti non calcoli: è sempre stato così. Non avevo calcolato di laurearmi in Scienze Politiche con la mastite e la primogenita in braccio a mio marito Dario, «speriamo vada tutto bene», gli avevo detto tra i brividi della febbre: per fortuna andò effettivamente tutto bene, così bene che a quel piccolo fagotto palpitante in Aula ne seguirono nove, uno ogni due anni. Anzi, un anno ne sono arrivati due; eravamo allora a quota cinque, stavamo partendo per le vacanze e mia mamma, già molto malata, esclamò dal pianerottolo: «Pensa, Titti, se ti fossi fermata a tre figli – secondo lei il numero perfetto –, ci sarebbero due cose meravigliose in meno al mondo». Fu l’ultima volta che la vidi e, un anno esatto dopo, arrivarono i gemelli: «Ho sbagliato i calcoli anche questa volta», ho pensato, e subito dopo, «anzi no, questa volta è stata mia mamma dal Paradiso». I nonni, si sa, sono più saggi e abituati a far di conto.

Non sono brava con i calcoli, ma nove parti di cui uno gemellare ti aprono alla vita e ai suoi imprevisti: avevo ascoltato una mamma di dieci figli raccontare l’esperienza dell’accoglienza vissuta dalla propria famiglia, «aprire la propria casa a un bambino o a una persona in difficoltà, dilatando l’orizzonte del proprio affetto a un “estraneo”, ha in sé qualcosa di divino che vince quella distanza. È come avere Gesù in casa», raccontava. Noi non eravamo nuovi all’ospitalità: avevamo accolto un amico di Dario, «sono in difficoltà, mi fermo tre giorni», aveva detto, e alla fine era rimasto tre anni. Poi se ne era andato, lasciandoci un ricordo grato e un segno un po’ meno gradito della sua presenza: un cane. Ospitammo a lungo anche una studentessa straniera; insomma cercavamo, tra una lavatrice di 11 chili e l’altra, di imitare il gesto di Cristo, offrendo quello che avevamo: una casa, e che altro? Un piccolo sì, era tutto quello che avevamo. E grosse lavatrici, certo. Ma dire sì a un bimbo sconosciuto che entra nella tua casa per un tempo che non conosci, per un tempo che è solo nelle mani del Signore, è una cosa ben seria: un mese, un anno, dieci anni, non importa. Un piccolo sì, si dilata nel tempo ed eccoci qui, a riempire di sì la convivenza con i nostri figli e quelli in affido.

«Ehi, quella bambina è mia!»
Oggi in casa siamo in quindici e per collaborare all’opera del buon Dio sappiamo che fare i calcoli non serve. Ma i conti sì. E quando non ci riusciamo da soli ci aiutano gli altri. Come quella volta che, tornando dal mare, iniziammo a stipare i figli nel nostro pulmino: uno, due tre, quattro, Dario stava contando le teste dei ragazzini quando la vicina di ombrellone ci raggiunse trafelata riappropriandosi di una bimba del gruppo, «ehi, quella è mia!». Il fatto è che le famiglie numerose si accompagnano quasi sempre ad altre famiglie numerose, e quando ci muoviamo in compagnia trabocchiamo di figli.

Quest’estate al mare, contavamo circa 36 tra bambini e ragazzi: quando arrivavamo in spiaggia e piantavamo il gazebo, tirando fuori palloni, pannolini e taralli, anche le famiglie del Sud si allontanavano con i loro frigo bar, la parmigiana, i nonni sulle spiaggine. Siamo esotici, lo so. Una volta, mentre Dario lasciava alcuni dei nostri figli davanti alla scuola, un papà chiese cortesemente, «mi scusi: lei fa servizio taxi per la scuola?». Per fortuna ci fanno anche un sacco di altre domande: «Porto il tuo quinto a calcio? Ti prendo la terza da ginnastica artistica? Porto i due a catechismo?», gli amici telefonano, chiedono sempre se abbiamo bisogno, e noi, ovviamente, rispondiamo sempre sì. Te Deum laudamus, quindi, per gli amici, che ci aiutano e ci addestrano a dire sì e a riempire di sì le ore del giorno.

Il caos è nemico dei cordon bleu
Abbiamo un planning fuori dalla cucina: ciascuno comunica ogni giorno orari di ritorno e impegni, altrimenti tra calcio, ginnastica, catechismo, esami all’università, compiti “fuori sede” scongeliamo un numero sbagliato di cordon bleu o non possiamo dire sì agli amici quando ci chiedono come possono aiutarci. Sono contraria ai turni, ma tutti hanno un compito, tutti sparecchiano, tutti aiutano, ognuno è responsabile dei suoi vestiti, del suo zaino, della sua borsa di calcio, ginnastica eccetera. Ognuno diventa grande attraverso i gesti che fanno bene a sé e a tutti: l’alternativa è il caos (e il caos non piace in primis a loro), o la rincorsa a tutto. All’inizio, quando eravamo circa la metà, Dario spostava avanti gli orologi di mezz’ora, terrorizzato di arrivare in ritardo a scuola, in ufficio, agli appuntamenti: ci ho messo un mese buono a capire perché mi ritrovavo sempre davanti all’asilo mezz’ora prima che aprissero i cancelli. Questa cosa ha finito per contagiare il mio ottavo figlio, che una sera, dopo essersi diligentemente messo in pigiama prima di mangiare, quando è arrivato il momento di andare a dormire ha deciso di andare a letto vestito di tutto punto per la scuola, «così, mamma, domani mattina non perdo tempo».

Una Vigilia dal meccanico
Te Deum laudamus anche per quello che a volte perdiamo, il tempo, i regali. Una vigilia di Natale, appena è rincasato, ho chiesto a Dario se si fosse ricordato di portare con sé i regali per i ragazzi che avevamo tenuto nascosti nel suo ufficio. «Ma certamente», esclamò lui. In effetti i regali erano stipati nel baule della macchina, peccato che Dario l’avesse portata dal meccanico, il quale non avrebbe riaperto prima della fine delle feste. Mio marito trascorse così la notte di Natale a commuovere un omino di guardia all’autofficina, riuscendo alla fine a far chiamare i proprietari, farsi aprire, trovare una scala – perché la macchina era già stata issata sul ponte per la riparazione –, recuperare i pacchetti e depositarli tra albero e presepe dove, di lì a poco, i bambini e i ragazzi li avrebbero scartati insieme.

Sì perché la regola anche a Natale è: non svegliare papà e mamma prima di una certa ora. Il sonno è un bene prezioso qui, sia per Dario, che ci mantiene tutti con il suo lavoro, sia per me. Lo sanno anche le mie figlie che spesso mi aiutano. Quante volte ho dovuto dire sì anche a loro (e grazie a loro). Quando si tratta di accogliere un nuovo affido le convoco sempre, spiegando che questo non può essere un sì solitario di mamma e papà.

Le lacrime e un messaggio straordinario
La mattina in cui ci trovammo a lasciare un bimbo, che aveva passato molto tempo con noi, ai suoi nuovi genitori adottivi, la nostra casa era una valle di lacrime. Dario si ricorda ancora la macchina chiusa davanti a quei visetti tristi davanti alla scuola. Poi, verso l’ora di pranzo, ho ricevuto un messaggio dalla mia figlia quattordicenne: «Grazie mamma per averci dato l’opportunità di questa esperienza così fantastica. Grazie per avermi fatto amare così tanto una persona. Grazie per aver detto di sì a questo bimbo. So che è stato difficile dire di sì, non smetterò mai di ringraziarti per questo. Grazie per avermi insegnato ad amare. Grazie mamma». Te Deum laudamus per ogni sì contro ogni logica del mondo che mi hanno insegnato a dire le mie figlie: un sì gonfio di fatica che non è mai obiezione al bene, un sì consapevole che amare “così tanto” significa anche lasciare andare una persona amatissima per il suo bene: è il rischio dell’affezione, tutto il contrario del tenerume sentimentale e incapace di distacco che attenta le famiglie ai giorni nostri. Il sì educa, e non lascia indietro nulla di te. L’ho sperimentato questa primavera.

Quando siamo solo in sei
Una mattina alzandomi mi sono accorta di avere il lato sinistro della faccia paralizzato. Non riuscivo a bere il té, sbiascicavo come un ubriacone irlandese. Dopo qualche ora ho scritto a un amico medico che mi ha spedito in ospedale di corsa: «Dobbiamo ricoverarti», mi hanno detto. Stavo sdraiata su un lettino, mi facevano portare le dita al naso, alzare le braccia, mi riempivano di domande, quando è entrato Dario: «Signor Gallotti, sua moglie ci dice che avete dieci figli», «oddio dottore, è gravissima, di figli ne abbiamo uno solo», e io che cercavo di sbiascicare «Dario, non fare il pirla». Chissà se andrà tutto bene, chissà cosa staranno facendo i ragazzi, chissà se Dario ha cambiato i pannolini ai piccoli, chissà… Te Deum laudamus per tutti quei “chissà” che in ospedale si sono trasformati da dubbi in affidamento, totale, della mia persona a Cristo. So che a nessuno è chiesto di portare più di quanto non riesca, e ho sempre pensato di non essere tagliata per portare qualcosa di grosso. Te Deum laudamus per il misterioso malore che mi ha insegnato che non sono una nullità, e per il ritorno, poi, a una vita pienissima, dove i figli esclamano «che tristezza la casa così vuota» quando sono “solo” in 5 o 6 a tavola: ed è la verità.

Te Deum laudamus anche per gli immancabili momenti di verità. Come quelli vissuti da una figlia in crisi con la scuola, «io non appartengo più a nessuno, non so di chi sono», la sua fatica nel cambiare istituto, il rifiorire della sua persona incontrando un nuovo preside che «mamma, è interessato a noi, a chi siamo noi». O quelli vissuti da un’altra figlia, quando le scapparono parole piene di risentimento per la famiglia di una sorella in affido, parole che ci obbligarono a intervenire duramente con lei. Due giorni dopo bussò alla porta un barbone. I ragazzi non gli aprirono, ma lei, la figlia delle offese che tanto ci avevano ferito, preparò un panino e pedalò a perdifiato per portarglielo.

Le figlie baby-sitter e noi sposi
Lei non ci disse nulla, non ci raccontò questo e altri piccoli gesti di accoglienza, per riscattarsi ai nostri occhi: ce li raccontarono i suoi fratelli più piccoli, a cui non sfugge nulla di questo operare del bene. Un bene visibile anche agli amici, a cui le nostre “grandi” si fanno presenti facendo da baby-sitter, anche gratuitamente, per i loro figli, «così voi potete uscire e vedervi con mamma e papà»: è il loro modo per aiutare noi ad essere ancora sposi e abbracciati da una compagnia senza la quale (lo riconoscono i nostri figli stessi) la fatica quotidiana non sarebbe sostenibile. Te Deum laudamus per questo bene così evidente che ci rende facile guardare tutti insieme nella stessa direzione. C’è una casa, all’angolo della strada, una grande villa piena di verde abbandonata. La guardiamo tutti i giorni, sognando di abitarci. Pare abbia un costo incalcolabile, ma chissà: noi con i calcoli non siamo mai stati bravi.

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