Un’altra giornalista liberal ha detto basta alla finzione woke

Le dimissioni di Tara Henley dall'emittente pubblica canadese CBC, diventata in pochi anni l'ennesimo media che spinge l'agenda radicale. «Ci occupiamo più dei filippini non binari che delle notizie locali»

«La storia di Tara Henley», ha scritto Bari Weiss sul suo Substack presentandola, «è la storia di moltissimi liberal. Fino a poco tempo, erano loro che spingevano tutti gli altri a essere più tolleranti, più comprensivi, più aperti, più compassionevoli. Poi è successo qualcosa e, all’improvviso (o almeno così è stato per loro), si sono trovati alla destra dei loro amici e colleghi. Il loro crimine? Rifiutare di abbandonare i loro principi al servizio di qualche dogma radicale e antiliberale». 

Una storia simile a quella di Bari Weiss

Tara Henley è una giornalista canadese che la scorsa settimana si è dimessa dalla Canadian Broadcasting Corporation, il servizio pubblico radiotelevisivo nazionale del Canada. Lo ha fatto, come succede sempre più spesso, con una lettera pubblica sul suo Substack, nella quale racconta il repentino quanto assurdo cambiamento di linea, se così si può dire, della tv in cui ha lavorato per anni. 

La storia di Henley è per molti versi simile a quella di Bari Weiss, raccontata più volte da Tempi, che lasciò il New York Times denunciandone l’illiberalità delle idee e l’impossibilità di esprimere opinioni diverse da quelle progressiste dominanti della cancel culture e del woke. Henley racconta di avere ho lavorato come produttore televisivo e radiofonico e occasionalmente come editorialista per la CBC per gran parte dell’ultimo decennio, ma di avere ricevuto negli ultimi mesi sempre più lamentele da parte degli spettatori.

«Una parodia della stampa studentesca»

«La gente vuole sapere perché, ad esempio, i filippini non binari preoccupati per la mancanza di termini LGBT nella loro lingua sono una priorità editoriale per la CBC, quando le questioni locali di grande interesse non vengono riportate. O perché lil nostro programma radiofonico di cultura pop parlando dello speciale Netflix di Dave Chappelle non ha tenuto conto delle legioni di fan, o degli altri comici, che non lo hanno trovato offensivo. O perché, esattamente, i contribuenti dovrebbero finanziare articoli che rimproverano i canadesi per aver usato parole come “brainstorm” e “zoppo”».

La domanda, comune a quella di moltissimi lettori di molte testate giornalistiche sparse per il mondo, è: «Cosa sta succedendo alla CBC?». Henley ha iniziato a lavorare per l’emittente pubblica canadese nel 2013. Allora, scrive, «produceva il miglior giornalismo del paese. Quando mi sono dimessa, il mese scorso, incarnava alcune delle peggiori tendenze presenti nei media mainstream». Incubato nelle università, il progressismo illiberale sta crescendo da anni in gran parte dei centri di potere, educativi e culturali di molti paesi, soprattutto quelli anglosassoni. Non a caso Henley sottolinea come la sua rete in breve tempo «è passata dall’essere una fonte affidabile di notizie a una parodia della stampa studentesca».

Fingere che la visione woke sia universale

Linea editoriale e politiche dell’emittente sono cambiate in modo «rapido e drammatico», tanto che lei si è trovata in una situazione paradossale: considerata una delle più a sinistra fino a qualche anno fa, oggi è quasi sempre quella con le posizioni più conservatrici. Il fatto è che lei è rimasta ferma sulle sue idee, sono gli altri a essere cambiati, «e ciò è accaduto nell’arco di diciotto mesi». Così se una volta le capitava di discutere con i colleghi sulla crisi immobiliare, dice, negli ultimi tempi provocava tensioni in redazione mettendo in discussione le politiche identitarie.

«Lavorare alla CBC nel clima attuale significa abbracciare la dissonanza cognitiva e abbandonare l’integrità giornalistica. Significa aderire, con entusiasmo, a un’agenda politica radicale che ha avuto origine nei campus della Ivy League negli Stati Uniti e si è diffusa attraverso piattaforme di social media americane che monetizzano l’indignazione e alimentano le divisioni della società. Significa fingere che la visione del mondo woke sia quasi universale, anche se è tutt’altro che popolare tra coloro che conosci, con cui parli, intervisti e leggi».

Il profilo razziale degli ospiti tv

Il woke genera mostri, e se non facesse perdere il lavoro e finire carriere certe sue derive grottesche farebbero anche ridere. «Lavorare alla CBC – continua Henley – ora significa accettare l’idea che la razza sia la cosa più significativa di una persona e che alcune razze siano più rilevanti di altre nel discorso pubblico». Nella sua redazione si è arrivati a compilare moduli di profilo razziale degli ospiti in modo da invitare più facilmente più ospiti di alcune razze e meno di altre». Grottesco, appunto, trattandosi di fatto di razzismo al contrario. Ma sempre meno persone se ne accorgono (o hanno il coraggio di denunciarlo), dato che i «colloqui di lavoro non riguardano qualifiche o esperienza, ma richiedono invece la capacità di ripetere a pappagallo le ortodossie e la dimostrazione di fedeltà al dogma».

Quando lasciò il New York Times, Bari Weiss disse che Twitter era diventato il vero editore del quotidiano: ogni argomento trattato doveva funzionare nella bolla social, e non offendere gli indignati da tastiera. Un anno dopo, parlando della CBC Tara Henley spiega che lavorare nella radiotelevisione canadese «significa andare meno contro il governo e le grandi aziende ed essere più ostili alla gente comune che ha idee che a Twitter non piacciono».

«Abbiamo accettato che non si parli più di certe cose»

Cosa c’è di sinistra nel pensiero liberal dominante, si chiede Henley notando come i media mainstream raccontino quasi esclusivamente storie di microaggressioni e non si occupino del problema della casa, ad esempio, o si preoccupino delle posizioni politiche di alcune compagnie ma non di salari e condizioni di lavoro. Lavorare alla CBC vuol dire spingere «per l’attuazione di radicali cambiamenti sociali come i lockdown, l’obbligo vaccinale e la chiusura delle scuole senza dibatterne, o quasi», non dire nulla sui burocrati che continuano ad accumulare potere o sui più vulnerabili che muoiono per overdose.

Essere un giornalista di un media mainsteam significa «accettare l’idea che un elenco sempre più ampio di argomenti sia fuori discussione, che il dialogo stesso possa essere dannoso. Che i grandi problemi del nostro tempo siano già tutti risolti. È capitolare alla certezza, chiudere il pensiero critico, sopprimere la curiosità. Tenere la bocca chiusa, non fare domande, non far dondolare la barca. Questo, mentre il mondo brucia».

C’è spazio per un giornalismo diverso?

C’è ancora spazio per un buon giornalismo? Come può una situazione come quella appena descritta essere salutare per la società? Henley si dice preoccupata per «la direzione in cui sta andando il Nord America» e sull’impatto che questo atteggiamento avrà sulla politica, la disuguaglianza economica, l’educazione, la salute mentale, la letteratura e il cinema, la scienza, il liberalismo e la democrazia.

«Queste domande mi tengono sveglia la notte», conclude. Dopo vent’anni di giornalismo in cui si è occupata di tutto ha deciso, come molti altri colleghi allergici al mainstream, di mettersi in proprio: «Il mio nuovo lavoro su Substack sarà del tutto indipendente e del tutto libero dal controllo editoriale, e mi permetterà di dire le cose che non vengono dette e di porre le domande che non vengono poste». Con tutti i rischi del caso. 

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