Suicidi, morti e sovraffollamento in carcere: i numeri del rapporto Antigone

Qualche lieve miglioramento, ma la situazione dei detenuti italiani resta pessima. Intervista a Alessio Scandurra, redattore del nuovo rapporto sui nostri penitenziari

Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, ha diffuso i dati relativi al 2015 e a parte del 2016 della situazione attuale delle carceri italiane (in pagina vedete alcune infografiche). I dati sul sovraffollamento, pur migliorati, rimangono alti (108 per cento). È questo il problema principale delle strutture, dal quale poi derivano tutti gli altri: suicidi, morti, condizioni di salute precaria, addirittura 3950 persone al momento prive di un posto letto regolamentare. Il rapporto di Antigone dimostra come si debba ancora fare molto per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Ne parliamo con Alessio Scandurra, coordinatore per l’associazione Antigone dell’osservatorio adulti sulla condizione di detenzione, che si è occupato di redigere il rapporto.

Nel 2015 i suicidi in carcere sono stati 43, meno rispetto all’anno precedente.
Quando si parla di suicidi in carcere i numeri colpiscono sempre. È un atto talmente estremo che non può essere giudicato singolarmente, parlare di “tendenze”, in calo o in aumento che siano, sui suicidi è inappropriato. Attualmente sono un po’ calati i numeri dei suicidi in Italia, e quelli in carcere hanno seguito l’andamento del paese.

Quali sono i soggetti più a rischio?
Un detenuto appena entrato in una casa circondariale va tenuto sotto osservazione, è molto più a rischio di uno che sta scontando la pena da molti anni. È importante la condizione psichica pregressa alla detenzione, perché un soggetto con fragilità sarà molto più a rischio. Sono particolarmente esposti al rischio suicidio i detenuti tossicodipendenti: si trovano improvvisamente privi della libertà e delle sostanze di cui hanno sempre fatto uso. Durante il periodo di astinenza potrebbero vivere episodi di angoscia intensi, tali da portarli a voler porre fine alla propria vita.

Come si può tenerli sotto controllo?
Il personale penitenziario fa già molto, lo dimostra il dato dei suicidi in diminuzione. Non si riuscirà mai del tutto a evitare un suicidio, proprio perché è un gesto estremo, in fondo imprevedibile. A volte leggiamo notizie di cronaca che raccontano di detenuti che si sono tolti la vita impiccandosi con una camicia o un lenzuolo. Non possiamo pensare di privare del tutto un uomo degli oggetti personali al fine di evitare il rischio di suicidio. Non possiamo pensare che per tutelare la vita di un detenuto fragile lo si debba “chiudere in un armadio nudo”. Penso invece che un buon canale di protezione possa essere quello dei compagni di cella, sono loro i primi a dover captare campanelli di allarme. Bisognerebbe istituire dei corsi di formazione in grado di aiutarli a identificare i segnali preoccupanti nel comportamento di un compagno.

Collegato al tema dei suicidi c’è quello delle morti naturali in carcere. Come mai il numero è maggiore rispetto all’andamento del Paese?
I detenuti tendono a trascurare il proprio stato di salute, sottovalutano eventuali problemi, tendono a non parlarne, alcuni pensano non verranno creduti. Un uomo libero può andare dal medico ogni volta che ne senta l’esigenza, per la medicina penitenziaria è molto diverso. Le risorse mediche sono poche rispetto alle necessità totali dei detenuti. E c’è da dire, senza ipocrisie, che molto spesso le visite mediche fatte all’esterno del carcere vengono viste come possibili vie di fuga, perciò sono ridotte al minimo dal personale penitenziario.

Parliamo del diritto all’affettività: in che modo i detenuti riescono a tenere vivi i rapporti con le famiglie?
Anche in questo senso va ancora fatto tanto. Ci sono Paesi che hanno stanze apposite per colloqui privati, che avvengono senza la presenza delle guardie. Dovremmo tendere a questo ideale, ma in Italia è stato già un passo avanti aver tolto i divisori tra detenuto e familiare. I colloqui in carcere avvengono insieme con tutti gli altri detenuti e familiari, in grandi stanzone rumorose, dove tutti urlano per farsi sentire. Non è certo il modo migliore per avere un dialogo. Inoltre abbiamo una legge del 1975 che sancisce che il detenuto possa parlare al telefono per 10 minuti alla settimana: io credo che questa norma debba essere aggiornata. Contestualizzata al 1975 poteva essere accettabile, quando le persone avevano ancora un difficile accesso alle comunicazioni. Nel 2016 dovrebbe essere permesso di comunicare per un numero di minuti maggiore. Ci sono due case circondariali in Italia che permettono i colloqui tramite Skype. Credo che la direzione da seguire dovrebbe essere questa. Per chi vive recluso ogni minuto in più conta.

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