È lo statalismo, non l’autonomia, a rovinare l’Italia

Non è più possibile rinviare oltre l’attuazione dell’art. 116 della nostra Carta: è la giusta risposta alle urgenze del nostro tempo

Pubblichiamo l’intervento del consigliere regionale lombardo Matteo Forte (Fdi) pronunciato in occasione delle seduta congiunta col ministro Calderoli sull’autonomia differenziata. Milano, Palazzo Pirelli, Aula consiliare, venerdì 21 luglio 2023.

Presidente Romani, Presidente Fontana,
Colleghi,
On. Ministro,
desidero cogliere l’occasione di oggi per offrire alcune riflessioni in risposta a tre quesiti in particolare: 1) verso quale autonomia vogliamo approdare? 2) Quali risorse per attuare il comma terzo dell’art. 116 della Costituzione; 3) Quale ruolo in questo processo per i rappresentanti eletti dai cittadini?

Quale autonomia?

Come è stato osservato «nessuno crede più che l’uniformismo sia sufficiente a garantire l’uguaglianza sostanziale tra i cittadini. Il problema diventa allora quello di adeguare le istituzioni, le politiche, le azioni pubbliche alle diverse esigenze, alle diverse caratteristiche, alle diverse istanze espresse dai territori”». Il processo di globalizzazione (con il suo spostamento di sistemi produttivi da un continente all’altro, la conseguente ridistribuzione di ricchezza e – come abbiamo visto drammaticamente nel precedente decennio di crisi economica – l’interconnessione dei sistemi bancari, che può trasformare dissesti finanziari in settori privati in default di stati sovrani) aumenta l’insofferenza verso l’uniformismo indifferente alle istanze dei territori. Le istituzioni locali possono garantire quello su cui gli organismi internazionali fino ad ora hanno mostrato di fallire, ovvero maggiore democraticità e maggiore prossimità. Lo possono fare secondo il principio “pago, vedo, voto”: l’elettore, cioè, vede sui servizi gli effetti concreti del governo di chi ha votato, acquisendo criteri attraverso cui decidere se rilegittimare o sanzionare i propri rappresentanti. La devoluzione di competenze verso il basso del XXI secolo è dunque da leggere dentro la dinamica storica iniziata con il crollo del muro di Berlino e l’avvio della globalizzazione, poiché questa inserisce nella corretta ermeneutica con cui leggere i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione iscritti nella nostra Costituzione e che ispirano le riforme che dal 2000 ad oggi stanno trasformando l’assetto repubblicano. Siamo di fronte, allora, ad un’autonomia non divisiva, ma di tipo collaborativo tra diversi livelli istituzionali. Il regionalismo differenziato di cui vogliamo trattare è un federalismo pattizio, che trova ancoraggio nella Costituzione repubblicana, dove il principio negoziale è irrevocabilmente affermato. Il termine “intesa” infatti ricorre all’interno della nostra Legge fondamentale ben cinque volte: nell’articolo 8, nel comma 3 dell’art 116, nei commi 8 e 9 dell’art. 117 e nel comma 3 dell’art. 118. Un affondo particolare lo merita l’art. 8, che per analogia offre spunti proprio al federalismo pattizio oggetto della nostra riflessione. Tra i diritti fondamentali viene riconosciuto quello alla libertà religiosa. E non solo del singolo, ma anche delle comunità. Queste regolano i loro rapporti con l’autorità pubblica «sulla base di intese con le relative rappresentanze». Ciò ha aperto ad un pluralismo che ha portato dal 1985, quando fu rinnovato il Concordato con la Chiesa cattolica, a concludere diverse intese con altre confessioni religiose, contribuendo alla piena valorizzazione di cittadini di fedi diverse e alla partecipazione di differenti esperienze religiose che informano opere sociali – sostenute pure attraverso la libera destinazione di parte delle tasse attraverso il meccanismo dell’8 per 1000 – quali apporto alla costruzione di uno spazio comune veramente pubblico, cioè di tutti. Per analogia l’autonomia differenziata sulla base di intese tra Regioni e Stato – anche per effetto di una trilogia di sentenze (nn. 372, 378 e 379 del 2004) della Corte costituzionale che hanno fatto prevalere il “diritto politico” su quello statutario – potrà portare, sul piano dell’esercizio delle funzioni legislativa e amministrativa, «ad una differenziazione delle modalità di azione delle Regioni italiane nell’esplicare la loro autonomia e nell’attuare i compiti costituzionali che l’ordinamento nazionale attribuisce loro». Ciò, secondo una parte della dottrina, può aprire a quella «forma di Stato a cui le Regioni diano un loro contributo, non in quanto sottomesse alle determinazioni statali, ma in quanto capaci di contribuire originalmente e nell’ambito delle loro competenze a dare completezza ad un quadro di relazioni inter-istituzionali che non possono che essere tra loro differenziate». Il federalismo di cui stiamo parlando e che per alcuni potrebbe quindi essere letto come un’anomalia che porta ad un regionalismo a geometria variabile, in realtà appare il punto di forza del processo di riordino istituzionale in atto dalla riforma del Titolo V in poi. L’autonomia differenziata, prevista dall’art. 116 comma terzo della nostra Carta, va infatti letta in combinato disposto con l’art. 118, secondo il quale «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». È quindi la differente declinazione di quest’ultimo principio e il diverso grado di coinvolgimento nello svolgimento di attività di interesse generale dei cittadini, singoli e associati (che secondo l’art. 4 della Costituzione hanno altresì il «dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»), il cuore dell’autonomia differenziata. Del resto, se si trattasse di un mero trasferimento di funzioni e materie dal centro alla periferia, ci troveremmo di fronte ad un uniformismo di ritorno che riproduce, su piccola scala, il paradigma statalista che abbiamo detto insufficiente a garantire l’uguaglianza sostanziale dei cittadini. In questi termini è superato tanto il modello di federalismo meramente organizzativo quanto quello competitivo, per affermare una via del tutto italiana e del tutto aderente al nostro dettato costituzionale. E senza con ciò dimenticare che, come ha precisato il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «l’autonomia e la riforma delle istituzioni centrali si tengono insieme», affinché si attui finalmente una forma di governo che garantisca all’Italia una maggiore stabilità politica e implementi il principio costituzionale della sovranità, attraverso l’indicazione di chi guida le istituzioni quale inequivocabile frutto di precise indicazioni popolari.

Quali risorse per attuare il 116?

Come è emerso a quattordici anni dall’emanazione della legge delega 42/2009 sul federalismo fiscale, non c’è autonomia senza una ristrutturazione completa del sistema tributario ed un riparto delle entrate che – superando la logica dei trasferimenti dal centro alla periferia – crei maggiore senso di responsabilità negli amministratori pubblici.

In particolare, si tratta di dare attuazione a quanto disposto dagli articoli 2 e 4 del decreto n. 68 del 2011, al fine di rideterminare l’addizionale regionale IRPEF e superare l’attuale meccanismo di compartecipazione all’IVA. Nell’ipotesi di un collegamento del finanziamento di sanità e Tpl corrente, rispettivamente, al gettito IVA ed al reddito IRPEF, è stato calcolato che le Regioni vedrebbero un surplus annuale di risorse aggiuntive pari complessivamente a 14,8 miliardi. L’autonomia differenziata dunque, accompagnata dall’attuazione della legge 42, può solo portare a benefici per i cittadini, poiché l’ampliamento dei margini di manovra regionali nella modulazione delle aliquote, nella determinazione di esenzioni, deduzioni e detrazioni rispetto alle proprie tasse, permette altresì, secondo quanto previsto dall’art. 2 di quella norma del 2009, in particolare alle lettere ff) e gg), la «definizione di una disciplina dei tributi locali in modo da consentire anche una più piena valorizzazione della sussidiarietà orizzontale», oltre che «l’individuazione di strumenti idonei a favorire» la famiglia, i suoi diritti, la sua formazione e l’adempimento dei relativi compiti. Come ampiamente attestato dalla politica regionale lombarda, che del principio di sussidiarietà ha fatto il cardine della propria azione pluridecennale, ciò potrà garantire una vasta gamma di servizi accreditati e offerti da soggetti di diversa natura (pubblici, privati profit e non profit), attraverso – per esempio – la possibilità di detassare i relativi investimenti delle imprese, piuttosto che dedurre ad origine le spese sanitarie e scolastiche delle famiglie, e superare così la logica dei trasferimenti monetari a mezzo di bandi che, nel tempo, ha solo prodotto alti tassi di burocrazia, alti costi di gestione e scarsa incidenza sullo sviluppo reale del territorio. L’autonomia differenziata e le risorse per realizzarla effettivamente potrebbero facilitare quindi una riduzione della spesa pubblica e della connessa pressione fiscale su famiglie e imprese. Potrebbe, perché una cattiva gestione che non tenesse conto del fabbisogno standard per la spesa in determinati servizi, e non valorizzasse pienamente la sussidiarietà orizzontale, si dovrà altresì assumere davanti agli elettori la responsabilità dell’innalzamento entro certi limiti consentiti dell’imposizione tributaria.

E qui giungiamo al cuore, se vogliamo, anche dell’attuale polemica politica, ovvero la definizione dei costi e fabbisogni standard finalizzata alla piena fruizione su tutto il territorio nazionale dei diritti di cittadinanza, quelli relativi cioè a materie come l’assistenza, l’istruzione o il trasporto pubblico locale. La definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) è funzionale al godimento dei diritti sociali e politici a cui tutte le componenti della Repubblica (Regioni incluse) sono chiamate a concorrere per l’effettivo esercizio di quegli stessi, attraverso una pluralità di soluzioni – e tale è il senso stesso dell’attuazione dell’autonomia differenziata – che faccia emergere comportamenti virtuosi tanto nel recupero dell’efficienza e dell’efficacia nelle prestazioni quanto nel più ampio soddisfacimento dei bisogni sociali non standardizzabili. Vorrei fare un esempio molto discusso. Nell’ambito dell’istruzione, materia su cui Regione Lombardia ha chiesto ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, in alcune aree del Paese lo Stato spende di più che nel nostro territorio, ma registrando elevati tassi di abbandono scolastico (nel Mezzogiorno l’Istat registra un 15,1%, contro una media nazionale dell’11,5%) e maggiori percentuali di giovani che non studiano e non lavorano (i cd. Neet, la cui incidenza nel Sud per Istat è doppia rispetto al Centro-Nord): secondo la Ragioneria generale dello Stato, in Calabria si spendono 5.474 euro a studente e in Campania 4.563, a fronte dei 3.814 della Lombardia. È la difesa dello status quo e del paradigma centralista che inficia con l’effettivo esercizio dei diritti della persona in alcune zone della Nazione, non l’autonomia differenziata. Quest’ultima, invece, attraverso il giusto coinvolgimento della società organizzata in virtù dell’art. 118, può spingere ad una sana competizione (cum-petere: andare insieme) che innalza la qualità dei servizi generalmente offerti su tutto il territorio italiano. I Lep devono quindi essere intesi a tutela dei diritti dei cittadini, non delle prerogative dello Stato a danno delle autonomie regionali. Anche perché, è bene ricordare, la possibilità di accrescere le competenze regionali è attualmente prevista dalla nostra Carta con l’art. 116, e a questo devono servire i Lep. Il malcelato tentativo di recuperare terreno da parte dello Stato centrale, attraverso l’uso dei Lep come “scudo”, questo sì!, richiede un processo di revisione costituzionale dell’art. 117.

Quale ruolo per i rappresentanti dei cittadini?

Il coinvolgimento della politica a tutti i livelli, locale e nazionale, e in tutte le sue espressioni istituzionali, dagli organismi esecutivi alle assemblee elettive, non deve essere – come abbiamo visto nella contesa sulla definizione dei Lep – un pretesto per rinviare qualcosa che si attende da 23 anni. Al contrario, deve avvenire per favorire la condivisione trasversale di massima di principi e soluzioni da adottare. Il ragionamento, quindi, non vale solo per i parlamentari ma anche per gli eletti nelle regioni. Perché questi non si limitino a ratificare decisioni altrui, mi sembra opportuno ricordare che la risoluzione con cui il 7 novembre 2017 quest’aula impegnava la giunta regionale a negoziare un’intesa con lo Stato – a seguito del referendum con cui 3 milioni di lombardi si erano espressi in occasione della consultazione del precedente 22 ottobre – stabilisce altresì «il coinvolgimento del Consiglio regionale anche tramite una diretta partecipazione dei suoi rappresentanti all’interno della delegazione che condurrà la negoziazione, il confronto con il Governo per definire i contenuti di un’intesa» e che siano assicurate «prima della sottoscrizione dell’intesa, forme e modalità adeguate di coinvolgimento degli enti locali, delle associazioni, dei rappresentanti delle realtà imprenditoriali, delle parti sociali e delle autonomie funzionali, nonché un costante monitoraggio degli sviluppi della trattativa e una più precisa definizione delle richieste». Non si tratta semplicemente di mera proceduralità. Si tratta piuttosto di qualcosa di sostanziale, che ha a che fare con il senso stesso della politica e della rappresentanza. Coinvolgere prima della sottoscrizione dell’intesa, e chiamare ad una diretta partecipazione alla negoziazione con lo Stato, i membri del Consiglio regionale, gli eletti che rappresentano i cittadini delle nostre province, significa non mutilare la rappresentanza lombarda riducendola alla sua sola componente esecutiva. Si tratta dunque a ben vedere di inverare gli stessi ideali di pluralismo, sussidiarietà, adeguatezza che ispirano la richiesta di autonomia differenziata e non tradirli già in partenza. Il coinvolgimento di tutti questi attori è tema politico nel senso più alto del termine, perché apre ad un dibattito sui principi che devono guidare il governo della cosa pubblica, permettendo di seguire un metodo che rafforza la riforma stessa. L’alternativa, come qualcuno già paventa, è che se la politica deciderà di non affrontare le questioni poste in queste mie conclusioni, che non sono solo di metodo ma anche di merito, «toccherà, come sempre è avvenuto in Italia nelle vicende del regionalismo, alla Corte costituzionale intervenire sul piano della legalità costituzionale. Il che non è necessariamente un esito da augurarsi».

Conclusioni

Nel mio incipit invitavo a leggere l’autonomia differenziata dentro la dinamica storica della globalizzazione. La Caritas in veritate ci ha ricordato, però, come «talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana». La pluralità delle istituzioni, resa possibile anche dalla loro articolazione locale e territoriale, è una delle vie principali perché il fenomeno che ha caratterizzato l’inizio del XXI secolo sia invece orientato e governato in senso personalista e comunitario, evitando l’omologazione a modelli economici imposti dall’alto che finiscono poi per uniformare anche il pensiero e la cultura. La devoluzione di ulteriori e particolari forme di autonomia ai singoli territori, invece, può essere proprio l’esaltazione di una, per così dire, “biodiversità”, da intendersi come l’insieme dato dal «valore delle cose, il loro significato per le persone e le culture, gli interessi e le necessità dei poveri». Per questo non è più possibile rinviare oltre l’attuazione dell’art. 116 della nostra Carta: è la giusta risposta alle urgenze del nostro tempo, tenuto conto che l’omogeneizzazione è contro il dettato costituzionale, mentre la differenziazione ne è un principio fondamentale.

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