«Stai attenta, ho solo te, deficiente!»

Stamattina in un bar davanti all’asilo, dopo avervi accompagnato terzogenito, con di fronte un caffè d’orzo in tazza grande macchiato caldo (Harry ti presento la Sally de noantri) e di fianco quartogenita nel passeggino che fa casino con una briosche sbriciolandosela tutta dentro al tutone spaziale anti-freddo, ho davanti l’articolo di un quotidiano sul caso Loris.

A parlare è la nonna materna di Loris, ovvero la madre della finora unica sospettata di.

Dopo l’iniziale comprensibile reticenza a parlare, il giornalista riesce a strappare spizzichi e bocconi della vita della donna con la figlia. Si intuisce fin da subito: non facilissima. Un rapporto che nel tempo si è sfilacciato, negli ultimi 9 anni quasi non si erano viste, lei per il nipotino scomparso era pressoché un’estranea e chiama la figlia «signora Panarello», non per nome.

«E non le mancava sua figlia?» «Certo che mi mancava».

Chissà se è stata lei. Tutto parrebbe portare lì. Eppure non è intorno a questa congettura che si accartoccia il mio pensiero.

Ma intorno a quel «certo che mi mancava» che mi fa tornare alla mente una ragazza che conoscevo anni fa.

Era giovane e aveva una figlia di circa 4 anni. Vivevano nella casa del fidanzato di lei (non padre della bimba). Lavorava saltuariamente, di qua e di là, non con particolare entusiasmo; lo stesso non particolare entusiasmo con cui seguiva tutto ciò che era “vita domestica”: cucinare, pulire casa, prendersi cura della bimba… che era sana e bella, ma un po’ lasciata a se stessa, ecco. Per sua figlia, più che una madre, “lei” mi sembrava un’adolescente che sta per uscire col ragazzo e cui all’ultimo momento è stata appioppata la sorellina. Un giorno le guardo, ma loro non vedono me: si allontanano da casa a piede spedito, la mamma tutta in ghingheri si trascina dietro la bimba. A un certo punto devono attraversare la strada, la bimba precede la madre, questa la riacciuffa per il braccio appena in tempo, visto che stava per passare una macchina, e la rimprovera: «Stai attenta, ho solo te, deficiente!».

Woody Allen non avrebbe saputo scriverla meglio. «Ho solo te, deficiente!» m’è rimasta in mente negli anni. Una perfetta sintesi di amore materno, benché sguaiata, tranchant e “spietata”. Era quel tipo di madre, “lei”, che nella vita di tutti i giorni non si vergognava poi tanto di dimostrare una certa “parallelità” (non “parallelismo”) alla figlia, ma alla quale, non vista da nessuno, scappa di bocca, a modo suo, una dichiarazione d’amore.

M’è tornata in mente perché anche la madre della “signora Panarello”, per buona parte dell’“intervista” lontana dalla figlia, presa a tradimento con quel «ma non le mancava?» non ha avuto tentennamenti: «Certo».

Mi torna in mente un altro “caso eclatante” (ai miei occhi e per questo motivo), il padre di Erika De Nardo, che ostinatamente e senza troppo clamore, anche dopo la condanna definitiva della figlia, la andava a trovare in carcere.

Cosa persiste nel cuore delle madri (e dei padri) di chi ha ucciso? Si chiama ancora amore? Da dove viene? Di cos’è fatto? Chi l’ha messo lì? Perché? Lo raggiungerò mai? Quella “cosa” mi provoca, a me che per due voci sovrapposte, per qualche pennarello caduto, per una domanda di troppo, urlo e sospiro: «Che vita». Mi provoca perché mi chiede quanto amo i miei figli. Fin lì? Di meno? Di più? Mi provoca perché mi chiede quell’“incondizionatamente” che nei testi delle canzoni d’amore o detto sull’altare dai due protagonisti di una fiction fa guardare alla vita con gli occhiali rosa a cuore; calato in una realtà fatta di una giovane donna in manette infilata in un’auto della polizia che corre, tra gli insulti di un paese, in questura dove alla ragazza sarà chiesto dell’omicidio di un bimbo di 8 anni, poi gettato, nudo, in un canalone, e quella ragazza è tua figlia e quel bimbo è tuo nipote, fa talmente tremare, che uno desidera solo che finisca presto, o che ci si sia sbagliati, sbagliati tutti, che si tratti di un grosso, enorme sbaglio collettivo (con tutto che la madre della “signora Panarello” non si è sbilanciata poi tanto in difesa della figlia, anzi: il notare un sussulto di amore materno mai sopito sotto tutta quella distanza è probabilmente una cosa solo tutta mia; e con tutto che sulla “signora Panarello”, al momento in cui scrivo, si sta ancora indagando).

Si diceva, tra poco è Natale. Inevitabilmente, il freddo che già fa entra un po’ più nelle ossa se penso all’acqua ghiacciata del canalone. Mi stringo nella giacca e tiro su la cerniera della tutona di quartogenita, pronta per il lancio in orbita, pago ed esco. Penso a quell’altra madre, quella che c’entra col Natale, cui pure è stato chiesto un “incondizionatamente” pesante. Il più pesante. Tuo, ma non tuo. Destinato a grandi cose, ma anche a immani sofferenze. Penso che io non ci arriverò mai. Penso che Natale triste.

Poi penso però anche che Gesù non è venuto a mettere tristezza; che la sproporzione che umanamente suscita, che Sua madre suscita, se mi schiaccia è solo perché cerco un alibi per non fare fatica; la fatica di dire «è vero, in effetti Tu sei tutto, di Te mi fido, quindi ti seguo»; che Gesù è venuto per un amore, un amore grande a me.

Penso a cosa farmene del “disagio” che mi ha creato la faccenda di Loris col suo risvolto di “incondizionatamente”, che mi crea la distanza siderale da Maria; ai miei sbagli e limiti; al desiderio di riuscire a essere come Maria, che del Figlio era misteriosamente insieme madre e serva, guida e discepola. E penso di dar tutto in mano a Chi è venuto per un amore grande a me.

@AnelliEva

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