Grandi opere

n. 5 - 2011

Per chi come me è nato a Torino, le grandi infrastrutture che hanno fatto l’Italia unita non possono che essere i grandi trafori che avvicinarono il paese appena divenuto nazione al resto dell’Europa, a seguire le strade ferrate interne, e nel dopoguerra del tumultuoso boom la rete autostradale, e i grandi aeroporti hub come Fiumicino e Malpensa. A cominciare, dunque, il traforo ferroviario del Frejus, il più lungo del mondo quando venne inaugurato il 17 settembre 1871, fortissimamente voluto da Cavour e da Vittorio Emanuele II, e che fu realizzato in soli 9 anni, assai meno di quanto occorra ora per le grandi opere in Italia, e con ben 16 anni di anticipo rispetto a quanto aveva previsto il contratto di programma finanziario stipulato anche dai francesi, che si impegnarono versare un premio in denaro per ogni anno d’anticipo, una clausola che sarebbe bene riprendere nell’Italia odierna.

 

Quanto alla rete ferroviaria interna, nel 1861 il divario tra Nord e Sud del paese era enorme. In tutto il Mezzogiorno i km di ferrovie erano soltanto 184, contro i 2.336 del Centro-Nord. Nel 1912 i km di binari erano aumentati di 5 volte al Centro-Nord, arrivando a 10.274. Al Sud l’aumento era stato di ben 70 volte, arrivando a 7.101 km. In cinquant’anni, l’Unità ferroviaria era sostanzialmente fatta. Nel giro di altri 25 anni, il Sud addirittura arrivò a superare il Nord, con 76,8 km di linea su mille km quadrati rispetto a 73,7. Negli ultimi anni, al contrario, il gap è tornato ad aprirsi. Nel 2009 i km di ferrovie erano al Centro-Nord 10.895, pari a 61,1 su 1.000 di superficie. Al Sud, invece, 5.731, pari a 46,6 chilometri ogni 1.000. In altre parole, alla stasi autostradale seguita al noto stop per legge di metà anni ‘70, è stato il Sud a dimettere il più di tronchi ferroviari al di sotto di ogni soglia di sostenibilità finanziaria per la finanza pubblica. Senza che per questo si completasse e potenziasse la rete su gomma, vedi il caso del sempiterno cantiere della Salerno-Reggio. Tendiamo tutti però a dimenticare l’importanza delle infrastrutture energetiche e di telecomunicazione, che sono altrettanto importanti per appianare i costi produttivi in un Paese dal differenziale economico sconsolatamente riaperto, visto che il contributo percentuale del Sud al Pil nazionale è tornato nel 2009 a essere pari a quello del 1951.

 

Da questo punto di vista c’è un’Italia unita che resta ancora da fare: quella dei NGN, visto che abbiamo bloccato gli investimenti nell’eterna querelle tra rame dell’ex monopolista, fibra e radiofrequenze degli altri players. E quella del potenziamento della rete ad alta tensione, per evitare gli imbottigliamenti a svantaggio del Sud, che ha tutte le caratteristiche per rappresentare l’area di elezione delle rinnovabili e per accrescere gli hub e le connessioni di rifornimento dall’estero, al fine di diminuire la dipendenza strategica dal gas algerino e russo di cui continuiamo a soffrire. Ma attualmente, con l’eccezione della Puglia, tutte le regioni meridionali sono ampiamente deficitarie. Nel 2008 ogni megawattora nel Mezzogiorno si paga 103,83 euro, al Centro 91,95 euro e 88,64 euro al Nord. Differenziali così marcati riflettono il crescere negli anni di carenze infrastrutturali particolarmente forti. Questo macroscopico svantaggio competitivo per le imprese del Sud (per le quali la voce energia incide per oltre il 30 per cento dei bilanci) va a sommarsi alle note altre esternalità negative. C’è ancora bisogno di infrastrutture, per dare un senso ai 150 anni di Unità e uscire dalla bassa crescita. Ce n’è bisogno eccome. Oscar Giannino

 

 

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