Sfatiamo un po’ di miti sugli “ogm Frankenstein”

«Parlare di questi organismi è fondamentale proprio perché ad Expo non se ne parla o se ne parla a sproposito». Intervista al professor Piero Morandini

Gli ogm buoni esistono, e sono tutti intorno a noi. Riempiono gli scaffali dei supermercati, affollano i frigoriferi, imbandiscono le nostre tavole e lo fanno da sempre. Di per sé già questa è una notizia per chi non ha mai riflettuto sul fatto che tutte le piante da noi coltivate e mangiate sono frutto di secoli di selezione, incroci e mutazioni tanto che, se domattina smettessimo di seminarle, queste si estinguerebbero.
Per capire meglio cosa sono veramente gli ogm, se siano o meno il “cibo di Frankenstein” e che rischi si corrano nel coltivarli e consumarli, abbiamo parlato con il professor Piero Morandini, docente presso il dipartimento di bio-scienze dell’Università di Milano.

Morandini, lei ha organizzato a Milano martedì 30 giugno un convegno dal titolo “Noi e gli ogm”. Un convegno che tratta di alimentazione, e che però non si è svolto “dentro” l’Expo. Perché è importante parlare di ogm anche in luce di Expo?
Innanzitutto il termine ogm non è il più corretto, perché vuol dire tutto e niente. Meglio sarebbe parlare di organismi geneticamente ingegnerizzati, o transgenici. Parlare di questi organismi è fondamentale proprio perché ad Expo non se ne parla o se ne parla a sproposito, forse perché è più un’esposizione sul cibo che su come produrlo.

Si fa un gran parlare di frutta e verdura rese sterili dal processo di modifica, o di ingegnerizzazione.
Sfatiamo un mito: non si creano delle piante sterili per il gusto di farlo. Anni fa un’azienda ci aveva provato ma il suo prodotto non è mai andato sul mercato. Le piante da sempre non si riproducono solo con metodi “naturali”, pensiamo alle talee che tutti gli appassionati di giardinaggio conoscono. La sterilità in quanto tale è un fattore relativo, quindi, e nasce soprattutto da caratteristiche gradite al consumatore. Chi ha visto com’è una banana naturale, l’ha riconosciuta a stento: piccola, tozza e piena di semi, tutt’altra cosa rispetto a quelle che troviamo al supermercato. Proprio l’assenza di semi rende un frutto più appetibile, pensiamo all’uva o agli agrumi.

Una prospettiva decisamente ottimista.
Sono ottimista, ma non a scatola chiusa. Ad esempio non approverei un riso tollerante agli erbicidi che potesse incrociare i propri geni con qualche infestante, un fenomeno che è noto come “fuga del transgene”.

Quindi qualche rischio, insomma, permane e il fatto che ci siano dei controlli serrati non può che giovare.
Il problema non sono i controlli in sé, ma la loro sproporzione. Pensiamo al golden rice, il riso a cui è stata aggiunta la vitamina A e che potrebbe salvare migliaia di vite: giace nei cassetti dei ricercatori dal 1999, sommerso dalle scartoffie. Tutto ciò, manco a dirlo, non avviene (o avviene in misura nettamente minore) con prodotti potenzialmente più rischiosi come quelli ottenuti da mutagenesi.

Mutagenesi e ingegnerizzazione dei geni. Che differenza c’è?
La mutagenesi è un processo a tappeto in cui si cambia il dna in modo permanente e generale, senza sapere di preciso cosa si va a toccare. L’ingegnerizzazione è un processo più mirato in cui selezioni prima, dove e in quale misura intervenire. Una garanzia ex ante di cui la normativa non tiene assolutamente conto, discriminando la tecnologia.

Perché c’è tanta avversione per questo tipo di ricerca scientifica e per i suoi risultati?
A volte più che di avversione temo si tratti di un’aggressione ideologica. Dietro ci possono essere numerosi fattori, come il fatto che qualcuno guadagni dalla paura o dal fatto che altri, per motivi dei più vari, considerino la natura come un’entità immutabile ed intoccabile.

Forse perché le cattive notizie vendono meno delle buone.
Certo, e noi magari non siamo stati capaci di spiegarci. Alla fine dei conti la stragrande maggioranza degli scienziati del settore sostiene le stesse cose che abbiamo detto noi al convegno, e cioè che ci vogliono più ricerca e meno paura e burocrazia, ma veniamo silenziati da una minoranza spesso impreparata e chiassosa. L’importante è che sia passato e passi il messaggio di fondo, soprattutto negli insegnanti che poi lo spiegheranno ai loro studenti. Sarebbe un piccolo, grande passo avanti.

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