Se la sinistra leggesse Marx e Kant, non festeggerebbe la sentenza del tribunale di Milano sull’utero in affitto

Le femministe odierne sostengono il diritto alla genitorialità e alla maternità surrogata. Obnubilate dall'ideologia, rinnegano la tradizione da cui provengono

«Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo», così scriveva non certo un bigotto teologo cattolico di stampo ratzingeriano, ma un filosofo protestante ed illuminista del calibro di Immanuel Kant nella sua Fondazione per una metafisica dei costumi.
Se c’è, dunque, qualcosa che l’illuminismo ha insegnato, sebbene non si possa ritenere che sia tutta farina del suo sacco, è il rispetto per l’umanità dell’altro uomo, la violazione del quale costituisce l’atto preliminare per l’instaurazione di quel dominio dell’uomo sull’uomo tanto temuto e avversato sia dagli illuministi che dai romantici ed utopisti socialisti a quelli successivi, primo tra tutti Karl Marx.

Non tutti, però, sembra che siano riusciti a cogliere il messaggio filosofico sopra illustrato, e tali sono soprattutto coloro che, paradossalmente, si iscrivono nella tradizione culturale che discende più o meno direttamente dall’illuminismo e dal marxismo.
Meno degli altri sembra che l’abbiano compreso i giudici della quinta sezione penale del Tribunale di Milano che, come riporta il sito de L’Espresso, hanno assolto una coppia di italiani i quali hanno dichiarato il falso circa il proprio status giuridico di genitori di un neonato venuto al mondo in Ucraina a seguito di surrogazione parziale di maternità (cioè quella per cui si conduce solo la gravidanza a seguito di impianto embrionario) dietro il corrispettivo di una somma di denaro (il cosiddetto “utero in affitto”).
Le toghe milanesi hanno ritenuto non responsabile la coppia italiana artefice di una simile condotta in quanto quest’ultima è stata messa in essere in Ucraina, cioè in un Paese in cui la legge consente tali procedure.

Come si evince chiaramente, soprattutto per gli studiosi di diritto, il fatto è alquanto prelibato e succulento, potendo essere esaminato nelle sue molteplici sfaccettature alla luce del diritto costituzionale (a partire dalla definizione di famiglia), del diritto civile (riguardante la indisponibilità dello status personale), del diritto penale (è ammissibile accettare che gli effetti criminosi di una condotta si producano in Italia sebbene il fatto sia avvenuto all’estero?), del diritto internazionale (come può l’ordinamento nazionale accettare e recepire condotte illecite che nell’ambito internazionali sono consentite?), sebbene, ovviamente, non sia questa la sede per un così vasto approfondimento.

Si possono tuttavia proporre delle riflessioni di carattere bio-giuridico che consentano brevemente di porre in rilievo le criticità etiche, giuridiche e filosofiche di una simile prassi medico-sanitaria e di una simile prospettazione giudiziaria adottata dai giudici milanesi.
Accettare la prospettiva della maternità surrogata, inscrivendola perfino in ciò che oramai viene definito il “diritto alla genitorialità”, significa commettere un doppio passo falso, sia in ambito teoretico, sia in ambito pratico, o meglio, etico.

A livello teoretico, infatti, condividendo la ammissibilità dell’utero in affitto, non ci si potrebbe definire autenticamente illuministi o appartenenti alla tradizione culturale “progressista”, in quanto la presunta configurabilità del cosiddetto “diritto alla genitorialità” comporterebbe la speciosa circostanza di considerare oggetto di tale diritto, così come la casa lo è del diritto di proprietà, il figlio, instaurando ipso facto quel dominio dell’uomo sull’uomo che tutta la tradizione illuminista e socialista ha ampiamente avversato ribadendo la libertà e l’uguaglianza di tutti e di ciascuno.

A livello pratico, etico cioè, non si potrebbe fare a meno di notare, invece, che la ammissibilità della maternità surrogata comporterebbe diverse incredibili e preoccupanti conseguenze, prima fra tutte la non peregrina ipotesi che l’utero in affitto possa generare una nuova classe di oppressi, di sfruttati, dando vita ad un vero e proprio isto-schiavismo fondato sulla necessità, quella per cui le donne povere e fertili “svenderebbero” il proprio utero per rendere madri le donne ricche ed infertili; ciò che Marx scriveva sul lavoro nei campi e nelle fabbriche potrebbe essere tranquillamente ri-adattato per il “lavoro intrauterino”.

Stranamente, tuttavia, le più accanite femministe odierne si presentano come le più calde sostenitrici del diritto alla genitorialità e della maternità surrogata, evidentemente obnubilate dalle nebbie ideologiche che non consentono loro la visione autentica del problema filosofico ed giuridico sottostante, cioè la fondazione del dominio assolutistico di una donna (o di una coppia) sulla dignità e libertà della prole e dell’altra donna (la madre surrogante pagata a tal fine).

Oltre che da una miopia etica, inoltre, i sostenitori della maternità surrogata, e tutti coloro che direttamente o indirettamente legittimano una tale prassi (non esclusi i giudici di Milano con la loro ultima decisione sopra accennata), soffrono evidentemente anche di strabismo concettuale, in quanto proprio le femministe dovrebbero avversare la pratica schiavista della maternità surrogata, e di una qualche grave forma di amnesia posto che è stata proprio una donna, di sinistra e femminista a condannare, quasi vent’anni or sono, senza mezzi termini la prassi dell’utero in affitto.

Su La Repubblica del 7 marzo 1997, infatti, così scriveva Miriam Mafai, alle parole della quale si affidano le conclusioni su cui tutti sarebbe meglio si meditasse, non esclusi i giudici di Milano: «Stiamo entrando nel grande circuito della mercificazione della gravidanza con tutti i cambiamenti giuridici, etici e psicologici che da questo possono derivare. Avremo tra breve anche noi come in America degli album tra cui scegliere le nostre incubatrici umane. Chi di noi non vorrà portare in grembo il suo bambino potrà, pagando, depositare il suo embrione altrove e tornare a riprenderlo dopo nove mesi. Si rompe così definitivamente un legame naturale, unico, nutrito di sangue e di sogni tra la madre e quello che una volta si chiamava “il frutto del ventre tuo” […]. Non tutto ciò che è possibile allo scienziato può essere considerato lecito».

Exit mobile version