Rifiutereste 400 euro di aumento per andare la domenica a pranzo dalla suocera?

A Sesto Calende, nel varesotto, la Lascor, azienda produttrice di casse per orologi, si è vista rifiutare dai suoi dipendenti la proposta di un aumento di salario e l'assunzione di duecento precari. Il motivo? I lavoratori non hanno intenzione di lavorare il giorno festivo. «Non chiamateli lazzaroni», spiega il funzionario Fiom De Musso. Ma ora il rischio è che qualcuno rimanga a casa

I telefoni della Lascor sono muti, impossibile mettersi in contatto con l’azienda svizzera del gruppo Swatch, che da anni produce casse e bracciali per orologi a Sesto Calende, nel Varesotto. Da un paio di giorni, infatti, la Lascor è al centro delle cronache locali e non solo a causa di un curioso caso scoppiato al suo interno. Tutto ha inizio lo scorso anno, quando l’azienda decide di investire undici milioni di euro in macchinari per far fronte all’altissima richiesta di produzione. Nonostante la crisi, il settore orologiero va a gonfie vele e gli affari aumentano così tanto che a metà del 2011 alla Lascor viene richiesto un ulteriore incremento della produzione. I vertici decidono di convocare i sindacati per ridiscutere le condizioni contrattuali e lavorative dei quattrocento dipendenti. Gli straordinari non bastano, è necessario invertire la rotta e garantire la produzione a ciclo continuo, tre turni per sette giorni alla settimana senza interruzione, festivi e domeniche ovviamente compresi.

Al tavolo della trattativa siedono Giuseppe Marasco, delegato Fim-Cisl, e Francesca De Musso, funzionaria Fiom-Cgil. Tre le condizioni essenziali proposte dai sindacati: regolarizzazione dei duecento precari, aumento del salario di almeno 300 euro e sperimentazione dei termini dell’accordo per tutto il 2012. La Lascor accetta e in azienda vengono votate le nuove condizioni attraverso il referendum. Il risultato è incredibile: su 433 votanti, 262 sono contrari alla riorganizzazione, 158 i favorevoli, 9 schede nulle e 4 bianche.

262 lavoratori contro i 158 dipendenti non hanno voluto cambiare il regime di vita. «È comprensibile – spiega a tempi.it Giuseppe Marasco – che i 262 dipendenti non abbiano voluto cambiare il proprio regime di vita, fatto della Messa della domenica e del pranzo in famiglia. Io non voglio in alcun modo colpevolizzare i lavoratori della Lascor che lavorano tutti con impegno e passione, come per esempio ha fatto pubblicamente il sindaco di Sesto Calende. La verità è che in Italia una persona non è abituata a lavorare la domenica e vorrebbe non doverlo fare. Però ci sono delle persone nel nostro paese che lavorano nei giorni festivi: che differenza c’è tra una mamma che lavora nella grande distribuzione o in ospedale e una che lavora nell’industria?». Dello stesso parere è il delegato Fiom Francesca De Musso, che aggiunge: «La domenica è l’unico giorno della settimana in cui ci si può ritrovare in famiglia, difficile chiedere a un lavoratore di fare questo sacrifico. Vorrei anche ricordare che i lavoratori della Lascor non sono dei lazzaroni, come qualche suo collega giornalista li ha definiti. Lavorano da sempre su tre turni anche il sabato e quando l’azienda gli ha chiesto il sacrificio di qualche domenica non si sono mai tirati indietro».

E allora perché hanno rifiutato l’offerta? «Perché non sono disposti a sacrificare la domenica in cambio di 300 o 400 euro che non sono nemmeno sicuri di ricevere», chiarisce De Musso. «Per ricevere quello che noi abbiamo definito “gettone continuativo” i dipendenti della Lascor devono raggiungere le 32 ore di lavoro del ciclo continuo, composto da quattro giorni di lavoro più due di riposo. Se per qualsiasi motivo l’operaio ha un deficit di mezz’ora nelle ore complessive non ha diritto ai 75 euro in più settimanali. Quindi, a causa di un mal di testa o di una sveglia che non suona potrebbe non ricevere l’incentivo e magari ha lavorato anche di domenica: un disastro». Il peso della prestazione però, come fa notare Marasco, si alleggerirebbe: «Le ore diminuiscono anche se aumentano le domeniche e i festivi in cui al lavoratore tocca andare in fabbrica. Se per esempio il 25 aprile cade di giovedì e a me in quel mese tocca lavorare al giovedì sono costretto a fare il mio turno».

La Lascor però ha delle richieste di produzione dalla casa madre da rispettare, altrimenti presto potrebbe essere declassata e, per assurdo, potrebbe trovarsi a dover licenziare i propri dipendenti, gli stessi a cui oggi offre qualche centinaio di euro in più. Quali potrebbero allora essere gli scenari futuri, anche all’indomani del rilievo che questa notizia ha avuto sulla stampa locale e nazionale? «È un’ottima domanda – commenta Marasco -. La situazione è questa: i lavoratori si sono espressi e il sindacato rispetta la votazione. Però l’azienda ha bisogno di lavorare e credo che dovrà risistemare le cose unilateralmente, per evitare il declassamento. Forse a farne maggiormente le spese saranno i precari, favorevolissimi alla trattativa perché avrebbero visto i loro contratti in scadenza trasformarsi in contratti a tempo indeterminato. Aspettiamo e vediamo». Francesca De Musso spera che il tavolo della trattativa si riapra in fretta per il bene di tutti, azienda e dipendenti: «I lavoratori hanno bocciato la prima ipotesi ma ci sono dei margini di miglioramento e secondo me dobbiamo lavorare tutti in quella direzione. Sapevamo che il gettone continuativo avrebbe creato dei problemi e così è stato. Spero che la Lascor faccia uno sforzo ulteriore per sbloccare la situazione». E i precari? «Non posso credere che li lascino a casa, è nell’interesse di tutti continuare a lavorare e tenere i ritmi alti».

I due sindacalisti sperano che la situazione si risolva per il meglio e a tempi.it confidano entrambi che avrebbero firmato l’accordo: «Perché stanno chiudendo tantissime aziende in zona e in questo periodo un lavoro lo devi tenere con le unghie e con i denti». Anche loro hanno una famiglia, potrebbero rinunciare al pranzo della domenica? «Ho quattro figli – spiega Marasco -. Se avessi un salario di 1.200 euro, 400 euro in più al mese mi farebbero comodo. La vera riflessione da fare però è un’altra. La nostra società si muove verso un modello diverso, dove non esistono i sabati e le domeniche e il lavoro non termina quando esci dall’ufficio. Forse è di questo che dovremmo iniziare a parlare, non solo a livello locale ma nazionale».

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