Resurrezione nordcoreana

Per i disertori in fuga dal regime giungere al Sud o in Cina non è garanzia di redenzione. Un calvario tra mafia e polizia, verso una libertà sconosciuta

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La Corea del Sud non è una terra promessa dove scorre latte e miele. E percorrere i quasi quattromila chilometri che separano il nord della Cina dal sud, verso la Thailandia o il Laos da dove è più facile raggiungere Seul, può essere più duro di una lunga traversata nel deserto. Ma se il paese più capitalista del mondo non è il paradiso, e l’impero comunista è ben più spietato di un purgatorio dantesco, per un “disertore” in fuga dal regime di Kim Jong-un l’unica certezza è che la Corea del Nord è l’inferno. E allora vale la pena tentare la fuga da questa grande prigione a cielo aperto a nord del 38° parallelo, dove la libertà semplicemente non esiste e 200 mila persone languono ancora oggi in campi di sterminio. Circa 30 mila nordcoreani sono riusciti a scappare negli ultimi 20 anni, ma per ogni rifugiato che raggiunge Seul o Washington o Toronto ce ne sono forse altrettanti che restano intrappolati nella rete tesa dal regime.

Non basta infatti attraversare il fiume Yalu, limen naturale che separa Pyongyang da Pechino, unica via di fuga possibile dalla dittatura sanguinaria dei Kim. Chi riesce a corrompere le guardie, sempre più numerose a presidio del confine, e a non affogare, deve vivere nascosto per sfuggire alla cattura della polizia maoista, diffidare di tutto e tutti per non finire nelle mani della mafia cinese o dei trafficanti di organi, sempre con il terrore di essere stanato dagli agenti segreti nordcoreani, sguinzagliati dappertutto nelle città vicine al fiume. Ma anche quando la lunga marcia che porta in Mongolia, Vietnam, Birmania, Laos o Thailandia va a buon fine, i giochi non sono fatti. Da qui si deve raggiungere la Corea del Sud e dimostrare di non essere una spia dei Kim. Infine bisogna imparare a vivere in un nuovo mondo, come se si fosse appena usciti dal ventre della madre, per scoprire magari che «la libertà e la possibilità di nutrirsi non bastano a dare un senso alla vita».

Padre Philippe Blot, missionario francese in Corea del Sud da quasi trent’anni, conosce bene la loro odissea. Dal 2009 infatti, due volte all’anno, entra in Cina e organizza a suo rischio e pericolo ogni dettaglio di questo viaggio. In otto anni ha aiutato 400 nordcoreani a scappare, sempre mantenendo un assoluto riserbo. Adesso invece ha deciso di raccontarlo perché, dice a Tempi, «troppi nordcoreani sono morti nell’indifferenza del mondo, troppi sono spariti nel traffico di esseri umani, troppi vivono nel terrore, braccati come animali. Bisogna rompere il muro dell’omertà e del silenzio, tutti devono sapere cosa accade a queste persone».

Quando nel 1990 è atterrato all’aeroporto di Seul, fresco di ordinazione da parte di san Giovanni Paolo II nella Società delle missioni estere di Parigi, non pensava che sarebbe finito a fare un mestiere così pericoloso. Per anni si è preso cura (lo fa tuttora) dei giovani adolescenti marginalizzati dalla società o abbandonati, aprendo tre case per accoglierli, garantire loro un’educazione e aiutarli a cercare lavoro. Quando alcuni di loro sono stati assunti in un’azienda che impiegava anche nordcoreani, venne a conoscenza per la prima volta della loro realtà drammatica.

«Mi hanno raccontato storie terribili, inimmaginabili, che mi lasciavano senza parole. Loro parlavano e io piangevo». Invitato in Cina, dove abitavano alcuni parenti, vide per la prima volta con i suoi occhi come vivono i “disertori” in clandestinità. «I primi rifugiati che ho conosciuto erano persone che, avendo famiglia in Cina, potevano visitarla una volta al mese. Molti però non volevano più tornare indietro e mi hanno chiesto aiuto. Così è cominciata questa avventura. All’inizio erano due, poi cinque, dieci, venti, trenta».

I nordcoreani in Cina sono merce ambita. Inseguono le loro tracce i membri della polizia segreta nordcoreana, ma anche gli agenti comunisti sono molto attivi. Dopo l’arresto alcuni vengono rimpatriati, altri venduti alla mafia e ai trafficanti di organi. «Cuori, reni e polmoni sono richiestissimi in Cina. Quando la mafia mette le mani su un nordcoreano lo porta spesso in un hotel e lo opera senza anestesia. Conosco un giovane arrestato dalla polizia cinese e venduto. Lo hanno portato in ospedale e steso su un lettino. Lui ha pensato: “Ora almeno potrò riposarmi”. Invece gli hanno tagliato un dito e strappato un occhio. Ma è sopravvissuto e poi è riuscito a salvarsi». Le ragazze invece «entrano nel giro della prostituzione. Spesso vengono anche vendute in Arabia Saudita. Ma tutto è meglio che tornare in Corea del Nord».

Qui infatti sono accusati di «tradimento», torturati e rinchiusi nei campi di rieducazione. Chi si è convertito al cristianesimo finisce più facilmente nei gulag o al patibolo: «Una donna che scelse volontariamente di tornare in Corea del Nord per distribuire delle Bibbie è stata arrestata, appesa per i piedi a un albero per diversi giorni e poi giustiziata pubblicamente». Anche i missionari cattolici o i pastori protestanti cinesi devono stare attenti. Poche settimane fa, due sono stati scoperti ed espulsi dal paese. A un altro non è andata altrettanto bene: «Tre agenti nordcoreani l’hanno catturato e sgozzato».

Il soccorso dei cristiani
Padre Philippe negli anni ha trovato una casa sicura per nascondere i nordcoreani. Attualmente ci sono venti persone in attesa di cominciare il lungo viaggio verso la libertà. Ma i problemi sono tanti. Prima di tutto i soldi: per mettere in salvo un nordcoreano servono almeno cinquemila euro per «intermediari, trafficanti, famiglie disposte a nasconderli, pasti, documenti falsi e ovviamente le tangenti per le guardie». Anche decidere chi aiutare non è facile: «Dobbiamo fare una selezione. Rifiutiamo di solito chi è completamente solo, perché potrebbe essere una spia. Non assistiamo neanche soldati dell’esercito o funzionari del partito, essendo ricercati con più impegno dal regime. Metteremmo a rischio tutta la nostra squadra. Preferiamo prendere in carico chi si lascia una famiglia alle spalle».

Il viaggio è un incubo: sui mezzi pubblici la polizia cinese controlla in modo ossessivo i documenti e anche se «abbiamo dei falsi perfetti, un nordcoreano si riconosce sia dall’accento sia dalla fisionomia». Se non si può prendere il treno o l’autobus, bisogna viaggiare in auto, «facendo molte staffette per cambiare mezzo, ma il tragitto così diventa più lungo e più rischioso. Anche perché le telecamere installate da Pechino sono sempre di più e bisogna evitarle». A volte essere cauti non basta: «Purtroppo non riusciamo a salvare tutti. L’anno scorso abbiamo effettuato un viaggio con tre squadre da sei rifugiati ciascuna. Ci siamo dati appuntamento alla frontiera con il Laos. Il mio gruppo è arrivato insieme ad un altro, il terzo no. Non so cosa gli sia successo».

Chi riesce a mettere piede in Corea del Sud può finalmente sperimentare che cosa significa vivere in una democrazia ma c’è un dato, confermato da diversi sondaggi, che cancella ogni rappresentazione idilliaca: dopo pochi anni di permanenza, oltre un terzo dei rifugiati vuole tornare indietro. Com’è possibile? «La Corea del Sud è una società consumista e individualista. Chi arriva dal Nord resta scioccato», spiega il missionario. «La ricchezza della gente li impressiona, mentre disoccupazione e discriminazione li deprimono. Parlano una lingua diversa, spesso vengono trattati come spie e buoni a nulla oppure accusati di essere responsabili dei massacri della guerra. Non sono in grado di gestire né i soldi, né la libertà, abituati a eseguire solo ordini».

Se si aggiunge che «si ritrovano soli, senza famiglia, in un paese “straniero”, si può capire perché fatichino a dare un senso alle loro vite. Molti vogliono andarsene, altri si suicidano». Godono ovviamente della libertà di pensiero o di movimento (in Corea del Nord non si può uscire dalla propria città senza un permesso scritto della polizia), «ma questo non basta».

Dopo aver conosciuto centinaia di rifugiati, padre Philippe ha visto che c’è però una cosa in grado di aiutarli: «La scoperta dell’esistenza di Dio, di cui spesso sentono parlare per la prima volta in Cina». Solo i cristiani, infatti, sono disposti a rischiare la vita per salvarli ed è «attraverso la loro amicizia gratuita che i rifugiati vedono il volto di Gesù che li ama». In tanti, quando arrivano a Seul, decidono di battezzarsi e grazie alla fede ricominciano a vivere.

Soprattutto, «vengono colpiti dalle storie dei martiri coreani, che aprono un orizzonte di senso alla loro sofferenza, mentre la consapevolezza della resurrezione apre una speranza altrimenti impossibile. Molti riescono addirittura a perdonare chi ha fatto loro del male». Ed è sempre la fede che dà la forza a padre Philippe, anno dopo anno, di tornare in Cina per affrontare un nuovo terribile viaggio: «So quello che rischio, anche a parlare, e molte volte ho paura. Ma è Dio che mi ha fatto incontrare i primi rifugiati. Non posso tirarmi indietro».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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