Repubblica, il Fatto e le cinquanta sfumature di moralismo

L’antipatia del Fondatore di Repubblica Scalfari per il giustizialismo del Fatto. Il foglio che meglio ha imparato e ammodernato la lezione del giornale-partito.

Eugenio Scalfari, giornalista fondato da Eugenio Scalfari (il copyright è di una strepitosa vignetta di Altan), quando s’arrabbia non si scompone, ma dispone. Dispone l’artiglieria delle sue parole posate e pungenti, tanto più ora che l’anagrafica lo rafforza in quel ruolo che si cucì addosso all’inizio della carriera: il grande vecchio, inteso come l’illuminato in grado di individuare il fronte più opportuno e di indicarlo, con benevolenza e fermezza, alla gente. La gente è il popolo di Repubblica e l’Espresso, entrambe, sebbene con modalità diverse, sue creature dilette. La gente sono anche i politici, gli intellettuali, gli inquilini o visitatori occasionali di quell’affollato condominio che si identifica con la sinistra italiana. Ebbene ormai, come scrivevamo su Tempi qualche mese fa, in quel condominio non c’è più un giornale solo a fare cultura, mentalità, pensiero. Se altre pubblicazioni d’area (dall’Unità al Manifesto) hanno sempre vissuto in uno spazio accessorio ma mai alternativo a Repubblica, l’irruzione del Fatto quotidiano ha incredibilmente dato battaglia al giornale fondato da Scalfari sul suo stesso terreno, quello dell’individuazione e investitura dei migliori da parte di altri migliori.

MIGLIORI CONTRO MIGLIORI. Con la differenza non trascurabile che il Fatto “randella”, sicché (questa è almeno l’accusa scalfariana) distrugge a suon di manette lasciando dietro di sé solo macerie. E su quelle macerie non può che svettare il demagogo (sempre scalfarianamente parlando) del vaffanculo, ovvero Beppe Grillo. È lì, sulla concitata conta di cosa sommergere e cosa salvare, che si consuma la rottura tra il Grande Vecchio e coloro che egli mai riconoscerà come i discepoli che hanno imparato, irrobustito e portato alle estreme conseguenze la lezione del giornale partito. In gennaio il Fondatore se la prendeva con «editorialisti qualunquisti e demagoghi», senza neppure darsi la pena di nascondere che si riferiva a Travaglio, Padellaro e compagnia. Non più tardi di quest’estate lo scontro si infiammava con la comunità del Fatto che discuteva di liste dei sindaci e della società civile per rispondere alla crisi dei partiti tradizionali e Scalfari, che di liste analoghe parlava già negli anni Novanta, impegnato ad accarezzare il sogno di una lista Repubblica (magari capeggiata da Roberto Saviano).

NAPOLITANO INTERCETTATO. Ma la madre delle contese, tale perché coinvolge il totem della legalità e spalanca il campo dell’interpretazione laddove c’era un solo dogma, è quella scaturita dal caso delle intercettazioni che coinvolgono il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, infatti, la procura di Palermo ha captato alcune conversazioni, datate fine 2011, intercorse tra il capo dello Stato e l’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino (era quest’ultimo ad essere sotto controllo in relazione agli anni delle stragi di mafia del 1992-’93). Quando cominciano a girare le prime indiscrezioni, l’estate scorsa, sui contenuti di quei colloqui, il clima si fa rovente e il capo dello Stato arriva a sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Consulta (che si pronuncerà il 4 dicembre prossimo) contro la procura di Palermo, ritenendo lese le proprie prerogative costituzionali. Napolitano rivendica, in quanto capo dello Stato, il diritto e il dovere di parlare di certe cose al telefono con il capo del Senato e chiede che le registrazioni vengano distrutte.

MANETTE CONTRO MESSE CANTATE. E qui le strade dei due giornali si dividono sempre più. Il Fatto, che con la procura di Palermo ha (per usare un eufemismo) buoni rapporti, si scaglia contro i misteri del Quirinale evocando toni da scontro finale tra l’oscuro potere di palazzo e i magistrati senza macchia e senza paura che hanno nel neoguatemalteco Antonio Ingroia il proprio simbolo. Inaspettatamente il Colle trova proprio in Eugenio Scalfari uno dei suoi difensori più valorosi. Chi ha un po’ di memoria storica ricorderà che si tratta dello stesso Scalfari che, ambizioso ed eccezionale direttore dell’Espresso, vedeva consacrare la sua carriera per un altro caso che coinvolgeva un capo dello Stato. Tutt’altre vicende, ovvio. È il cosiddetto Piano Solo, la storia di un tentativo di golpe militare messo a punto nell’estate del 1964. Ad architettare il piano, poi rientrato, sarebbe stato il comandante generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo su istigazione del presidente della Repubblica, il democristiano Antonio Segni. La copertina “Complotto al Quirinale” del 14 maggio 1967 che lanciava l’inchiesta firmata da Lino Jannuzzi portò allora l’Espresso, e il suo direttore, sulla bocca di tutti. A parte le spiritosaggini di un destino che ti vede sedicente giustiziere di sordidi complotti da giovane e ti ritrova anziano sponsor della ragion di Stato, il caso è significativo perché squarcia l’ultimo velo, quello del cortocircuito tra legalità e giustizia destinato a segnare le sorti della sinistra italiana. Niente fa più rizzare i capelli a Scalfari di un magistrato, magari proprio Ingroia (il Guatemala non è poi così lontano e lui stesso prima di partire ha detto che fare politica è un diritto di tutti), in grado di saldare “partito dei sindaci”, grillini e quel che resta dei dipietristi. Il Grande Vecchio non vuole nemmeno pensare a un’ipotesi del genere. Anche perché gli elettori di un partito così preferirebbero i tintinnii del Fatto alle messe cantate di Repubblica.

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