Quei passi di un secolo fa

È strano come una mattina, percorrendo esattamente i soliti abituali passi, può succedere di vedere qualcosa che non hai notato mai. L’altro giorno per esempio, nella portineria di casa, mi è caduto lo sguardo sul gradino che divide l’androne dalla guardiola del portinaio. Bene, questo gradino di marmo, non me me ero mai accorta, mostra il segno di un’usura, al centro, dove il bordo si fa visibilmente più sottile.

Per smussare così il marmo, occorre una infinita serie di passi; ripetuti, innumerevoli passi, avanti e indietro, avanti e indietro ogni giorno. Ragazzi che vanno a scuola e casalinghe con la spesa; e impiegati puntuali, che escono e tornano ogni mattina e ogni sera, per anni e anni, esattamente alla stessa ora. Ma nemmeno questo andirivieni basterebbe ad assottigliare il marmo, se non si ripetesse da cent’anni. Già, perché – considero fra me, mentre aspetto il nostro pigro e asmatico ascensore – questa casa non ha meno di un secolo. E dunque i primi passi sul gradino sono del 1910; e se fra i primi inquilini c’erano dei vecchi, erano nati attorno al 1840, sudditi, dunque, ancora, del Lombardo Veneto. Quanto ai bambini che in quell’inizio di secolo passavano per questo portone in carrozzina, se non hanno cent’anni sono ormai morti da un pezzo.

Non sono sempre stati uguali, i passi sul gradino. C’è stato forse un giovane fante richiamato sul Piave, che è uscito da questa casa per andare al fronte; e chissà, poi, se è tornato. E com’erano i passi negli anni dell’ultima guerra, quando Milano era sotto le bombe? Mi accorgo ora che le case dall’altra parte della via sono tutte recenti: un lato della strada risparmiato, l’altro completamente in macerie. Com’erano dunque i passi quando di notte l’allarme suonava? Quando si correva affannati giù per la stretta scala della cantina, qui sotto, dove ancora una freccia sbiadita sul muro dice: rifugio.

E mentre l’ascensore con un cigolio artritico arriva e si ferma, cerco di calcolare quanti possono essere stati, per cent’anni, i passi sul marmo. Mi piacerebbe poterle convocare tutte, queste ignote generazioni di inquilini: vederli in faccia, ascoltarne le storie. Intanto l’ascensore si apre e ne esce un vicino di cui non so, naturalmente, il nome. Ci si scambia un indifferente buongiorno. Io salgo, lui, di fretta, sfiora con un passo veloce il mio gradino.

Normale. Nessuno è più estraneo che il tuo dirimpettaio, sul pianerottolo di un palazzo di città. Ma perché io ho questa fame e quasi avidità di storie di uomini che nemmeno ho mai visto? È che confusamente mi sembra che nessuno mi sia completamente estraneo; che tutti siamo, in fondo, come frammenti di un uno, in un tempo remoto andato infranto.

49/2012

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