La presuntuosa idea di usare i calciatori come pedine per le battaglie sui valori

Per molti media occidentali il Mondiale è solo un pretesto per pretendere attivismo sui diritti gay dai giocatori. E chissenefrega dei risultati. Un editoriale rivelatore sulla Stampa

Prima di Germania-Giappone i calciatori della Nazionale tedesca si sono fatti fotografare con la mano davanti alla bocca per protestare contro il divieto imposto dalla Fifa di indossare la fascia arcobaleno (foto Ansa)

A forza di ripetere che il calcio è politica si finisce non solo a crederci veramente, ma soprattutto a trattarlo come se fosse solo politica. È il caso – enorme – di questi Mondiali, ipocritamente contestati poche settimane prima del loro inizio e poi usati dai media occidentali per una battaglia sui valori utile a dividere il mondo in buoni e cattivi, tanto da mettere in secondo piano i risultati sportivi: è il caso della clamorosa sconfitta della Germania contro il Giappone, diventata nota a piè di pagina di innumerevoli articoli sul gesto dei calciatori tedeschi prima della partita, la mano davanti alla bocca a significare la censura imposta dalla Fifa a chi voleva parlare di diritti degli omosessuali in Qatar.

La pretesa che i calciatori facciano politica in Qatar

Sorvolando sul curioso fatto per cui ci si è molto preoccupati per tutti i diritti negati nel paese del Golfo tranne uno, quello della libertà religiosa, per quasi una settimana il punto della discussione non sono stati tanto i diritti effettivamente negati a omosessuali, lavoratori e donne in Qatar, quanto piuttosto la libertà o meno di alcuni capitani di alcune Nazionali di indossare la fascia “One Love”. Nel giro di pochi giorni, infatti, donne e lavoratori sono spariti dai radar dell’indignazione, e sembra che l’unico problema del Qatar sia il fatto che le relazioni tra persone dello stesso sesso sono vietate dalla legge.

Si è così arrivati a teorizzare – sempre sui media occidentali – il dovere di calciatori, allenatori e Federazioni di esporsi in favore di diritti negati dal paese che ospita i Mondiali, in poche parole di fare politica. Qualcuno lo ha fatto, pochi in verità, pochissimi, ma tanto è bastato per ingigantirlo, vendere ai lettori e ai telespettatori un Mondiale da scontro di civiltà in atto.

Poi però le partite hanno cominciato a contare, e i giocatori si sono ricordati di essere pagati per fare i calciatori, non i parlamentari o i dirigenti di qualche ong, e si sono messi a giocare. All’editorialista sportivo collettivo, però, questo non è andato giù. È stata Giulia Zonca sulla Stampa, ieri, a fare il coming out definitivo, ammettendo quello che sospettavamo già: i Mondiali, il calcio, le partite, sono un dettaglio, una scusa per portare avanti una battaglia (che, tra l’altro, se fosse fatta su qualunque altro valore sarebbe definita neocolonialista e irrispettosa).

Lezioni di coraggio ai calciatori in Qatar dalla redazione

Sulla prima pagina del quotidiano torinese Zonca esprimeva tutto il suo disappunto per la smobilitazione annunciata dal tedesco Gündogan, «questo Mondiale con la politica ha chiuso». Parla di «voce della disillusione», di «pallone fresco di coscienza civile» che «scopre un’azione collettiva e non la sa ancora manovrare». Curiosa questa pretesa di cambiare il mondo stando in redazione ad accusare di immaturità ragazzi di vent’anni che «dovrebbero pretendere» di scendere in campo «solo dove esistono garanzie minime per una vita decente» (pretesa non dissimile da quella di giornalisti e ospiti de Il circolo dei Mondiali, su Rai 1, che ieri sera dal caldo dello studio televisivo chiedevano ai giocatori dell’Iran di ribellarsi sul campo al regime). 

Per Giulia Zonca i calciatori dovrebbero schierarsi apertamente, in un paese arabo, contro i princìpi dell’islam dato che, spiega, «non c’è principio tollerabile che vieti a una persona la libertà di amare o desidera chi crede e questo è un ottimo motivo per reggere i commenti acidi sotto i profili social». Insomma, non è neppure concepibile che un calciatore al Mondiale possa avere un’idea diversa dalla linea editoriale della Stampa sui diritti, né che non si senta in dovere di fare attivismo, se non l’ho fa è perché ha paura dei commenti acidi sui social.

I calciatori come soldatini di battaglie valoriali

La Zonca cade nel solito complesso tipico di tanto giornalismo progressista, quello di superiorità: le mie idee sono le sole buone e giuste, se qualcuno non le condivide è solo perché non le ha ancora capite. «Il calcio non è pronto», scrive paternalisticamente (o maternalisticamente?) la Zonca, parlando di «resa» e «ammissione di non essere in grado». Coraggio, però, il sol dell’avvenire si avvicina, «il calcio è all’anno zero della militanza: è per forza immaturo, crescerà quando si renderà conto del proprio valore, quando capirà di non avere bisogno di compiacere un sistema», e poi magari agli ottavi o ai quarti qualcuno avrà «voglia di mettersi in piedi sul banco e trascinare chi li guarda».

I calciatori come soldatini da schierare in difesa dei valori, insomma (ma solo alcune: se sei russo non puoi giocare, se sei turco e stai con Erdogan dovresti vergognarti, e così via), carne da macello delle redazioni impegnate a raddrizzare il legno storto dell’umanità, militanti consapevoli di battaglie in nome del progresso. Poi, se vincono o perdono, chissenefrega, non è mica il loro mestiere, no?

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