Putin, la Terza Roma e l’imperialismo necessario

Senza di lui la guerra in Siria sarebbe lontana dall’epilogo e Trump sarebbe disperato nella ricerca di un interlocutore con il quale rimettere in piedi una Yalta globale

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Sinceri democratici e anime belle dell’ultim’ora non si spaventino: non siamo diventati le majorettes di Vladimir Putin (putinettes); non ci ha colto la provincialissima sindrome d’innamoramento per l’uomo forte o figo, quella che da un po’ di tempo a oggi s’è impadronita dei convertiti al piacionismo muscolare del francese Emmanuel Macron (loro, sì, macronettes). Dalle nostre parti sappiamo benissimo che non sarà lo zar del Cremlino a salvare da solo il mondo, e men che mai a recuperare l’Italia dalla sua dimensione periferica, basculante tra antiche obbedienze atlantiche, recenti allucinazioni eurofobiche e nuovi istinti animali populistici. La Russia di Putin lavora per i propri interessi strategici: contenimento della Nato in Europa; difesa dell’islam nazionalista e della mezzaluna sciita in Medio Oriente, a cominciare dalla Siria di Assad (leggete al riguardo lo strepitoso reportage di Paolo Romani e Mario Mauro nelle pagine che seguono) ma con una equidistanza pragmatica nell’arco di crisi che finisce per contrapporre Iran, Turchia e Israele; ripristino di una Ostpolitik tedesca più favorevole ai naturali rapporti commerciali ed energetici tra Mosca e Berlino (con Parigi e Bruxelles inevitabilmente al rimorchio); allargamento della sfera d’influenza asiatica in collaborazione con la Cina (saranno Mosca e Pechino a sculacciare la Corea del Nord per toglierla dal raggio di tiro dei bombardieri di Donald Trump?); affermazione recisa e irrefutabile dell’alleanza fra trono e altare nella promozione di un tradizionalismo cesaropapista che non concede l’esistenza di molti princìpi negoziabili con il secolarismo sradicante. Insomma un vasto programma che si fa forza delle altrui debolezze, dall’irresolutezza onusiana al tramonto dell’invadente ipocrisia liberal effigiata dalle coppie Obama/Clinton e perseguita da quel fantasma pseudo gollista che fu Sarkozy.

Putin non è un santo, di tanto in tanto esibisce sovietismi inconsci (Ucraina) e cade in qualche peccatuccio di troppo sulle libertà di espressione (leggete la bella conversazione tra Luigi De Biase e Eduard Limonov). Sta di fatto che senza la sua spregiudicatezza la guerra intercontinentale combattuta per procura in Siria oggi sarebbe ancora lontanissima dall’epilogo, e lo staff della Casa Bianca che contorna il Maverik della Trump Tower sarebbe ancora più disperato nella ricerca di un interlocutore credibile con il quale rimettere in piedi una Yalta globale. Ed ecco il punto. Ci piaccia o no, il nuovo disordine mondiale non è destinato a durare: le attuali linee di frattura internazionali, dal terrorismo al riarmo atomico, devono essere governate da un consesso politico sovrano e decisionista. Il mondo anglosferico tenderà a riagglutinarsi intorno a Trump, la Brexit muove in tale direzione dall’Atlantico, le inquietudini giapponesi mirano allo stesso traguardo dal Pacifico; l’Asia profonda sarà ridisegnata dal quadrilatero russo-cino-indo-pakistano; l’Europa è in disarmante ritardo sull’appuntamento e rischia di arrivarci senza sapere come vestirsi: alla tedesca o all’euroasiatica?

A cento anni esatti dalla Rivoluzione d’Ottobre, nel piccolo vuoto europeo di questo grande gioco mondiale, tornerà presto in voga il termine “imperialismo” che secondo Lenin era lo stadio monopolistico del capitalismo e per noi contemporanei è l’esito logico di uno Stato Mondiale ad alto tasso d’instabilità finanziaria, conteso da poche saggezze umane, forti intelligenze artificiali e arcaiche forme di spiritualismo. Nel caso di Putin, per lo meno alle sue spalle c’è l’orma della pretesa Terza Roma costantiniana migrata da Bisanzio a Mosca. (Fintantoché la Prima Roma tace).

@a_g_giuli

Foto Ansa

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