Presidenzialismo o fallimento: l’unico modo per trasferire la sovranità dalle élite ai cittadini

Per 150 anni, invece di dare agli italiani facoltà di indirizzo, si sono privilegiate scelte di emergenza: meglio laicisti che clericali, meglio i pm militanti che rompere gli equilibri del potere

«Non hai idea di quanto sia devastante lo sbandamento in corso», mi dice un vecchio amico, comunista come me ai tempi della Prima Repubblica. Ma poi lui non è diventato un conservatore e milita ancora oggi nel Pd. «Ti ricordi gli anni Settanta quando la Dc iniziò a perdersi? Nei Comuni divenne un gioco da ragazzi per noi divederla, approfittare delle sue debolezze, mantenere l’iniziativa. Di fatto così si è andati avanti anche negli anni Ottanta, nonostante l’azione insidiosa di Bettino Craxi, e alla fine così si è sopravvissuti persino negli anni Novanta. Ebbene tutto ciò è terminato: Pd e postcomunisti, dentro questo partito, sono come la Dc nella fase della disgregazione e chiunque – estremisti, grillini, questo o quel giovinetto, questo o quel quotidianino o quotidianone, questo o quel pm – ci penetra come un coltello nel burro». Il quadro interno del Pd così ricostruito fa impressione e così l’ultima dissoluzione del lascito togliattiano, quel composto di disciplina maturata nello stalinismo e rigorosa lettura della vita nazionale dai tanti sapori crociani.

Verrebbe da concentrarsi sui vizi dei singoli: l’eccesso di mediocrità di Pier Luigi Bersani, la storica miopia municipalistica degli emiliani che tanti guai portò già al socialismo del primo Novecento, il poco coraggio nel sostenere la scelta del meglio – invece che del meno peggio – da parte di eredi del Pci sia di tendenza post-togliattiana sia riformista, il tradimento delle originarie idee modernizzanti da parte di Sergio Cofferati che trasforma la Cgil in un cimitero del sindacalismo, la mezza virtù dei leader delle toghe iscritte al Pci, pentiti dell’audacia insorgenziale degli anni Novanta ma incapaci di portare fino in fondo le conclusioni da trarre su quell’esperienza. La vacuità di personaggi come Walter Veltroni, scambiati per innovatori perché inserivano un po’ di Fonzie nell’antica pratica dell’egemonia e nelle più recenti paccottiglie moralistiche berlingueriane.

Naturalmente responsabilità e storie dei singoli hanno contato, ma proprio l’evocato parallelismo con la Dc può aiutare a capire il movimento più profondo della nostra storia. E a ragionare su come non sia un caso se tutti i partiti architrave dello Stato italiano finiscano in un drammatico fallimento: i liberali postrisorgimentali, i fascisti, i democristiani e ora quella sorta di monstrum costituito dall’unione di dossettiani e postcomunisti. Certo, mentre le altre esperienze sono segnate da forze che s’ingegnano a esercitare un’egemonia sullo Stato, il monstrum dossettian-postcomunista (che si chiami Ulivo o Pd) ha riflesso l’influenza di ampi settori dello Stato sulla politica, rappresentando un ceto politico sopravvissuto solo nella conservazione, senza vitalità innovativa. Però alla fine, impedendo una riforma della Costituzione, ha esercitato nella sostanza quella surroga di istituzioni pienamente espressione della sovranità popolare che in modi pur difformi (opposti se si considera fascismo e Dc) tutte le forze egemoni nell’Italia unita hanno realizzato. Al fondo si è trattato di élite che si sono sottratte a un trasparente rapporto dialettico con i cittadini grazie a una sorta (sia pure con diverse gradazioni) di autoreferenzialità.

La vittoria di Machiavelli su Guicciardini
È questa la base del fallimento sistemico dei partiti italiani che ha indebolito alla radice la qualità della classe dirigente, incrinato la sovranità nazionale, impedito una netta separazione tra politica e amministrazione, sia che il dominus fossero i politici sia che eventualmente lo fosse la magistratura combattente. Ogni crisi dello Stato è diventata così distruzione della forza politico-culturale che lo ha retto, senza quell’accumulo di idee, quadri, valori che è tipico di tutte le altre grandi democrazie europee.

È importante concentrarsi sulle cause storiche più che sulle responsabilità dei singoli perché solo da questo tipo di riflessione può venire una qualche soluzione. Via di uscita peraltro che può trovarsi solo se si considera come per oltre centocinquanta anni, invece di costruire razionalmente uno Stato dove i cittadini avessero potere fondamentale di indirizzo (certo adeguatamente controbilanciato come in ogni poliarchia democratica), si siano privilegiate soluzioni di emergenza: meglio il laicismo elitista piuttosto che il clericalesimo incombente, meglio il fascismo della rivoluzione bolscevica, meglio la Dc che correre i rischi derivanti dal contesto della Guerra fredda, meglio la magistratura combattente che costruire un sistema decisionale realmente efficace ma devastatore di equilibri elitistici ed esterodiretti ben radicati. Se non è tardi, se a cinquecento anni dalla pubblicazione del Principe un’altra volta i poteri europei non prevarranno sul machiavelliano disegno di costruire uno Stato nazionale autonomo lasciandoci il solo orizzonte del “particulare” guicciardiniano, solo questa consapevolezza consentirà attraverso l’unico modo che mi pare possibile – una qualche forma di presidenzialismo – di combinare insieme sovranità popolare e nazionale.

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