Caso Powell. C’è solo una cosa peggiore del doping: il professionismo dell’anti-doping

Liberalizziamo il doping sportivo, così non sarà più doping

Quando il mondo dello sport viene squassato da casi clamorosi di doping come quelli appena rivelati di Gay e Powell o semplicemente dal sospetto (su Froome il dominatore del Tour: non appena uno va forte a pedali si pensa subito a una bomba), torno ad avanzare la mia vecchia proposta: liberalizzazione totale del doping sportivo che, in questo caso, non sarebbe neanche più doping. Tra l’altro, se fosse tutto alla luce del sole, ne trarrebbero giovamento anche gli atleti che potrebbero essere seguiti da strutture organizzate, da medici preparati e non da stregoni più o meno laureati.

Ovviamente mi rendo conto dell’enormità della proposta e rispetto le opinioni di chi pretende la regolarità delle manifestazioni sportive. Ma c’è un altro aspetto non marginale, al di là del tema etico, che rende irrealizzabile la faccenda. L’anti-doping, come tanti “anti” della nostra epoca, in se stessi rispettabili (anti-fascismo, anti-mafia, anti-imperialismo), è diventato un business clamoroso. Insomma, un mestiere. Sull’anti-doping, come su tutti gli altri anti, sono state costruite carriere, aziende, guadagni, si mantengono mogli e amanti, case con l’Imu e palazzi senza. Insomma, ho il sospetto che ormai gli “anti” guadagnino di più di quelli che vogliono contrastare e che quindi non ci libereremo mai di loro, né di quelli che, in teoria, stanno contrastando. Dio, adoro essere così lucido.

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