Pistorius perde e protesta contro un avversario “avvantaggiato”. Sono le contraddizioni del post-umano

È un classico esempio di legge del contrappasso: in passato Oscar Pistorius è stato escluso dalle competizioni di atletica leggera per normodotati in base alla convinzione che le protesi con cui correva rappresentassero un vantaggio superiore allo svantaggio costituito dalla sua disabilità; all’indomani della gara delle Paralimpiadi di Londra, nella quale è stato sconfitto sui 200 metri dal brasiliano Alan Fonteles Cardoso, è stato lui ad accusare il rivale di indebito vantaggio, ipotizzando che le protesi del vincitore non fossero regolari.

Uscita dalla finestra, la questione delle protesi con cui Pistorius ha corso prima le Olimpiadi di Londra e ora le Paralimpiadi rientra dalla porta. E con essa rientrano questioni che vanno molto al di là dello sport e che la maggioranza degli osservatori continua a non voler tematizzare, forse per ignoranza ma forse anche per altre ragioni. Tipo: fin dove può spingersi il concetto di “uguaglianza umana” quando l’umano che viene messo a raffronto uguale non è? Fino a che punto le protesi ripristinano l’umano perduto e da che punto in poi invece ci spingono nel post-umano?

Queste domande, insieme a quelle sulla liceità sportiva delle protesi di Pistorius, le aveva spazzate via nella prima metà del 2008 la grande ondata del sentimentalismo che, grazie a una decisiva pressione mediatica, aveva sospinto il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna ad emettere una sentenza favorevole all’atleta sudafricano. Costui aveva interposto appello contro una prima sentenza, emessa dalla Iaaf, che lo aveva escluso dalle competizioni per i normodotati, e l’appello gli aveva dato ragione. Diciamo che a far prendere la bilancia dalla sua parte è stato il “sentimentalismo”, perché la scienza si era assunta la non lieve responsabilità di spiegare, per bocca del professor Peter Brueggeman dell’istituto di biomeccanica dell’università di Colonia, che le protesi non ripristinavano l’uguaglianza di condizioni fra il corridore sudafricano e i suoi avversari, ma conferivano al primo un vantaggio meccanico stimabile in un valore del 30 per cento rispetto agli altri concorrenti.

Losanna ribaltò la sentenza con una motivazione strabiliante: i test, secondo i giudici del Tas, non erano decisivi nello stabilire se c’era vantaggio oppure no, dunque nel dubbio Pistorius doveva essere accettato. In realtà a riqualificare l’atleta a furor di popolo è stata l’egemonia di due princìpi della cultura dominante: il principio di non discriminazione del diverso e il principio dell’uguaglianza assoluta di tutti gli esseri umani. Sembrerebbero due princìpi in contraddizione fra loro, e invece coesistono perfettamente in forza del sommo grado di astrazione del secondo: l’uguaglianza di cui parlano i moderni, che ha il suo prototipo nell’egalité della Rivoluzione francese, è talmente astratta da poter essere totale e totalizzante. Fu introdotta per motivi politici (si trattava di abbattere la monarchia di diritto divino e il potere secolare della Chiesa, due realtà storiche che poggiavano sull’idea di gerarchia), in termini logici e pratici non ha senso, è un puro assioma indimostrabile, anzi soggetto a smentite. Ma per la sua rilevanza politica rivoluzionaria, e per l’irresistibile attrazione del potere che ha trasferito dalle élites al singolo uomo, è diventata pensiero dominante.

Se gli uomini sono uguali, assolutamente uguali, ogni differenza perde di rilevanza. La differenza non viene rispettata come tale, ma perché è irrilevante: di fronte alla profonda, assiomatica uguaglianza degli esseri umani, nessuna differenza, fisica o spirituale, psicologica o culturale, etnica o religiosa ha la benché minima importanza. La discriminazione è il peggiore dei peccati non perché esprime un giudizio negativo su una differenza, ma perché mette in discussione il sacro principio dell’uguaglianza. I più secolaristi fra i liberal sono pronti a sguainare la spada contro chi esprima critiche o riserve nei confronti dei musulmani o dei rom non perché provino ammirazione per i valori religiosi dell’islam o per i valori culturali dei cosiddetti zingari (anzi, normalmente li disprezzano in fondo al loro cuore), ma perché temono che un dibattito sulla verità religiosa e morale metta in pericolo l’uguaglianza assiomatica e indifferenziata degli esseri umani, base del sistema politico post-rivoluzionario e della sua cultura relativista.

Con Pistorius ha funzionato esattamente questo meccanismo: bisognava dire che è uguale agli altri concorrenti anche se uguale non è, per non mettere in pericolo il dogma dell’uguaglianza, che ha contenuti politici e antropologici che vanno ben al di là dello sport. Ma sono bastate un po’ di gare per mandare in cortocircuito l’egualitarismo agonistico: oggi è Pistorius che accusa i suoi avversari di sleale disuguaglianza! La quale non esisterebbe quando gareggia con atleti privi di protesi, ma improvvisamente riemerge fra atleti paralimpici.

Chi è causa del suo mal, pianga se stesso, dice il proverbio: legittimata l’introduzione delle protesi artificiali nel mondo dello sport, non ci si può lamentare che si scateni la competizione per migliorarle costantemente, per mettere a disposizione degli atleti le più perfette. Mentre combatte aspramente il doping come interferenza artificiale nella lealtà di una competizione umana, lo sport mondiale ha aperto surrettiziamente la porta alla sua istituzionalizzazione nella forma dell’uomo-macchina, nel quale non c’è più differenza fra umano e artificiale e quindi non si può parlare di doping.

Naturalmente non ci aspettiamo che gli atleti si amputino parti del corpo per sostituirle con arti meccanici più efficienti (anche se forse in qualche paese del mondo c’è chi non si tirerebbe indietro di fronte a questa prospettiva…); ma possiamo facilmente prevedere un futuro nel quale gli atleti saranno costruiti in laboratorio sin dal momento del concepimento: gli embrioni umani verranno selezionati e modificati per ottenere atleti dotati delle qualità necessarie a primeggiare nelle varie discipline. A quel punto l’egualitarismo avrà compiuto la sua caratteristica parabola: all’inizio c’è sempre l’omologazione delle differenze in nome dei buoni sentimenti, a metà c’è la negazione nei fatti dell’uguaglianza proclamata teoricamente, e alla fine c’è la fuoriuscita dalla condizione umana in quanto tale, e l’avvento di un inquietante post-umano.

A chi volesse obiettare che questi sono i contorcimenti intellettuali di un cattolico reazionario, e che l’avvenire dell’uguaglianza umana emancipata dalle gerarchie celesti è radioso, farei notare che il primo ad accorgersi che l’egualitarismo illuminista era solo un escamotage per scrollarsi di dosso il potere di re e papi è stato un figlio dell’illuminismo anticristiano come Friedrich Nietzsche. È lui che fa dire a Zarathustra che gli uomini non sono uguali, e che gli fa annunciare l’avvento dell’Oltreuomo. L’esito dei passati tentativi di tradurre in realtà storica l’intuizione di Nietzsche dovrebbe mettere in guardia tutti, ma così non è, come dimostrano le derive della bioetica e dell’ingegneria genetica.

Negare la coerenza dell’egualitarismo non significa negare l’uguale dignità degli esseri umani. Questa, semmai, è la contraddizione tipica dell’egualitarismo, che proclama l’uguaglianza di normodotati e disabili, ma nello stesso tempo organizza l’eliminazione sistematica dei disabili nel ventre materno e ancora prima, nelle provette della fecondazione assistita. Gli esseri umani non sono uguali, ha ragione Nietzsche-Zarathustra: ce ne sono di stupidi e di intelligenti, di eccellenti e di inaffidabili, di forti che guidano i popoli e di deboli che rappresentano un peso per la loro comunità. Eppure hanno tutti la stessa dignità, che impone di rispettarli, per una fondamentale ragione: Dio si è fatto uomo ed è morto sulla croce per tutti loro. Fuori da questo fatto, non è tanto facile proclamare una morale universale che li protegga tutti.

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