Pavese: «Un uomo che non ha mai chiuso il cuore di fronte alle domande di senso»

Nel giorno del 62esimo anniversario del suo suicidio, Gianfranco Lauretano – poeta e scrittore – ricorda la grandezza di uno dei più importanti autori della letteratura italiana contemporanea.

Il 27 agosto 1950 il corpo di Cesare Pavese viene trovato riverso sul letto di un albergo, a Torino. Aveva ingerito una dose massiccia di sonniferi, che gli bloccarono cuore e respirazione. Non c’era nulla da fare. E il più era già stato fatto, qualche mese prima, quando la giuria del premio Strega gli conferì la vittoria per La bella estate. A più di sessant’anni dalla morte del grande scrittore di Santo Stefano Belbo, Gianfranco Lauretano, poeta ed autore di un saggio dal titolo La traccia di Cesare Pavese (Bur, 2008, 248 pp., 10 euro), traccia le coordinate di una delle maggiori personalità della letteratura del Novecento.

Dove sta la grandezza di Cesare Pavese?
Nel non aver mai chiuso il cuore alle domande che lo coinvolgono. Le grandi domande sull’esistenza a cui ha provato a rispondere fino alla tragica morte. Purtroppo, Pavese non ha incontrato nessuno che gli facesse compagnia nella ricerca. O meglio, non è stato costante nel seguirlo. Parlo di padre Baravalle, che nel romanzo La casa in collina ha il nome “parlante” di padre Felice, che l’aveva anche confessato e comunicato. Spesso, si vedevano a Torino, sotto la casa editrice Einaudi dove lo scrittore lavorava. Poi, una serie di eventi e difficili condizioni psicologiche, insieme a incontri nell’ambiente culturale piemontese, astioso verso la religione, non l’hanno aiutato a superare la crisi e a confermarsi nella risposta intravista.

E, di conseguenza, questa solitudine lo ha spinto al suicido…
Neanche il successo letterario gli bastava più. Nello stesso anno della morte – il 1950 –l’autore si conferma ai massimi livelli della letteratura italiana a lui contemporanea vincendo il premio Strega. Eppure, nemmeno il più grande riconoscimento stilistico, al quale aspirava da sempre, è riuscito a placare la sete del suo cuore. Un premio non esaurisce la vita, non la salva. Le sue esigenze erano strettamente legate a un’originale richiesta di radici, di provenienza, di storia. Il romanzo in cui è meglio trattata questa sfumatura è La luna e i falò, ambientato a Santo Stefano Belbo, paese natale di Pavese. Questa ricerca di identità gli deriva dalla tradizione letteraria americana, di cui il piemontese fu un altissimo studioso. Tra gli altri, tradusse il Moby Dick di Herman Melville.

Meno conosciuta, ma pur sempre importante, è l’opera in versi di Pavese.
Anche la sua poesia ha connotati vicini alla lirica americana. È atipica: narrativa, paratattica, con grandi spazi e ampli orizzonti. La prima opera che Pavese editò fu proprio Lavorare stanca, l’unica pubblica in vita. Da cui i famosi versi di Lo steddazzu: «Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno / in cui nulla accadrà»; o Mari del Sud, una poesia che racconta l’ascesa a un monte insieme a un cugino-guida, al modo di Dante e Virgilio. È postuma, invece, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

@danieleciacci

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