«Oh Signore, al momento sono una scamorza, fai di me una mistica, immediatamente»

La mistica non devota di Flannery O'Connor nel suo "Diario di preghiera". «Avvicinare il mistero senza fare astrazioni, rappresentandolo sempre “incarnato” nella realtà»

Articolo tratto dall’Osservatore romano – Il Diario di preghiera (Milano, Bompiani, 2016, pagine 112, euro 11) è un testo difficile da definire. Flannery O’Connor l’ha scritto a vent’anni, dal 1946 al 1947, lontano da casa, a Iowa city, dove si era recata per studiare giornalismo e da dove invece ritorna con la consapevolezza che la sua strada è quella di diventare una scrittrice di narrativa. Prefato da Maria Pia Veladiano, è stato tradotto da Elena Buia e Andrew Rutt. Si tratta di paragrafi brevi, di appunti scritti di getto, a metà strada tra riflessione diaristica, corrispondenza epistolare, poesia, preghiera: una serie di annotazioni contenute in un quadernino nero, ritrovato dall’amico Bill Sessions (qui l’intervista a Tempi, ndr) tra le cataste di inediti ancora sepolti nella soffitta di Andalusia, in Georgia, la fattoria dove Flannery si era trasferita con la madre Regina, dopo aver scoperto di essere malata, e dove sarebbe morta a soli trentanove anni, lasciando un allevamento di pavoni e una produzione letteraria ristretta, ma di inequivocabile talento.

Di questo Diario di preghiera, solo una cosa è certa: le sue righe veementi, appassionate, a volte confuse, dettate da una convulsa necessità di relazione sono rivolte a colui che Flannery definisce essere il suo «amante»: in questo caso, Dio. Le parole usate sono “basse”, non letterarie, a volte si ripetono nella stessa riga; lo stesso si dica per la sintassi che segue il ritmo del parlato, ricca di colloquialismi, modi di dire, giochi di parole. Flannery è una mistica a tutto tondo e la traduzione italiana ha tentato di rimanere leale a quella sua particolare spiritualità, che non si esprime in un linguaggio devoto, in pensieri gentili e composti, in una religiosità risolta e accondiscendente. Il rischio di una traduzione che non avesse tenuto conto di questo, avrebbe standardizzato e addomesticato una relazione con il divino di per sé grintosa, appassionata, carica di intuizioni creative. Come si nota in tutta la sua produzione successiva, per Flannery, l’ironia e soprattutto l’autoironia è la chiave per avvicinare il mistero senza fare astrazioni, rappresentandolo sempre “incarnato” nella realtà. L’estetica edulcorata che raffigura il bene con il canone del bello è completamente ribaltata: il bene, in questa scrittura, è rappresentato in modo grottesco, poiché tale è l’espressione più adeguata per esprimere la condizione ontologica dell’uomo: quella di un’incompiutezza in attesa di essere sanata.

Fin dalla prima pagina di questo Diario di preghiera, Flannery “protesta” il suo disagio per non essere capace di “sentire” le preghiere tradizionali e incalza Dio in modo accorato con un’immagine lirica e veemente: «Sei la sottile luna crescente e il mio io è l’ombra della terra che mi impedisce di vedere la luna per intero (…). Ma quello di cui ho paura, caro Dio, è che l’ombra del mio io cresca a tal punto da oscurare tutta la luna, e che io giudichi me stessa dall’ombra che è nulla. Io non Ti conosco Dio, perché io sono in mezzo. Ti prego, aiutami a farmi da parte». Si vede in nuce in queste righe, quello che diverrà uno dei temi cruciali della sua narrativa futura: l’ossessione dell’Io che, con le sue tracimazioni, impedisce la conoscenza dell’Assoluto. Un Assoluto ingombrante, da cui più ci si prova a liberare più si viene attratti fino alla capitolazione, fino alla catartica accettazione.

Ciò che le righe del Diario di preghiera ci confermano in modo sorprendente, è il fatto che questo conflitto tra Io e Dio sia innanzitutto una «modalità interiore» dell’autrice stessa che, successivamente, in una delle sue lettere, avrebbe definito il suo rapporto di bambina con l’angelo custode, nei termini di un fare a pugni senza esclusioni di colpi. Eppure, queste pagine mostrano un desiderio di unione, un rapporto di vicinanza strettissima con un Dio, a cui Flannery si permette di “dare ordini”: «Oh Signore, al momento sono una scamorza, fai di me una mistica, immediatamente». Chiede al Signore di rischiarare la sua mente, di renderla cioè capace di visione, di discernimento, affinché le sue storie non siano altro che “la storia di Dio”. È questa la grazia che chiede Flannery: la grazia dell’ispirazione artistica e spirituale, che nel suo caso sono indissolubilmente legate. Le tentazioni e le insidie di un mondo secolarizzato, che riduce la fede a mera proiezione e a necessità dell’Io, la assediano al punto da chiedere aiuto: «Ho paura di mani insidiose oh Signore che brancolano nel buio della mia anima».

Il 26 settembre del 1947, la giovane donna conclude, sgomenta, questo diario: «I miei pensieri sono così lontani da Dio. Potrebbe anche non avermi creata», come sovrastata dalla sua pochezza nel cimento con la scrittura e con il divino. Eppure, anche questo finale apparentemente fallimentare, e completamente ribaltato dagli sviluppi artistici e spirituali successivi, è indicativo del coraggio di un’anima che non rinuncia ad esplorare il senso profondo di una vita in rapporto creativo con il Dio vivente.

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