Non vogliamo morire di like mentre un robot ci scalda le coperte nella cella

Ho visto traslocare nello scintillante non-luogo (Facebook) intere comunità radicate nella vita vera, troppo per non sospettare del palinsesto zuckerberghiano

Anticipiamo l’editoriale tratto dal numero di Tempi in edicola a Milano e Roma da oggi giovedì 2 marzo (vai alla pagina degli abbonamenti) – Mister Facebook contro Donald Trump. L’apertura d’una congrua posizione fiscale per i robot che ci scippano il salario di produttività: proposta di Bill Gates. Una polizia del pensiero internettiano impiegata in dosi massicce alla ricerca di fake news da debellare e, già che c’è, disposta a spegnere focolai di una libera espressione anche d’immagini disallineata rispetto al basso cielo metallico del conformismo mainstream. Roba grossa. E con parecchi sottotesti impliciti.

Per comprendere di che si tratta quando parliamo del ricco Maverick stanziato alla Casa Bianca, tutto chiacchiere e protezionismo, contro il quale si erge non un ragazzo in carne e ossa ma un marchio globale che punta a essere anche un destino, basterebbe ripubblicare “Il Caffè” che Massimo Gramellini ha dedicato sul Corsera al “Fratello Zuckerberg” (18 febbraio). Necessario ma non sufficiente, perché Gramellini in fondo la pensa come il ragazzotto che vuole asfaltare il presidente americano. Qui interessa però un concetto chiave: «Mark Zuckerberg incarna il volto presentabile della globalizzazione. Ha poco più di trent’anni, uno sguardo mite, un’azienda che offre servizi piacevolmente gratuiti, una vita che è già un film di successo e un distillato di opinioni illuminate, dove si sprecano parole come pace, ambiente, libertà e progresso… Verrebbe da consegnargli il mondo, se non ci assalisse il sospetto che se lo sia già preso. Facebook sa tutto delle nostre vite e usa le informazioni per rendere sempre più ricco e influente il piccolo imperatore del Bene».

Si sa che il diavolo indossa un bel facciotto illuminato utile a mascherare la sua volontà di dividere (diabàllein) e così, nel caso in questione, meglio inglobare pezzi di mondo, reti di relazioni, affetti e possessi. Se internet è ormai un orizzonte ineludibile di esistenza e di lavoro, Facebook è il suo calco negativo in cui affollamento, ostentazione e democratismo allacciano invisibilmente l’anima di chi vi si consegna senza riserve. Da queste parti frequentiamo pure noi la bacheca dei like, non siamo neoluddisti né verginelli. Ma c’è sempre un ma: ho visto traslocare nello scintillante non-luogo intere comunità altrimenti radicate nella vita vera, troppa grazia (altrui) per non sospettare del palinsesto zuckerberghiano come d’un sommario di zuccherosa decomposizione umana.

Aggiungici l’umanizzazione dei robot compresa nel distopico piano welfarista vagheggiato dal patron di Microsoft, ed ecco sopraggiungere la disumanizzazione degli uomini: dare per scontato che i robot ci ruberanno altro lavoro non significa soltanto escludere ogni alternativa, vuol dire accorciare le distanze ontologiche con i dispositivi tecnologici che già soddisfano appetiti materiali e leniscono deficit immateriali, sesso e solitudine perfino. Il pensiero unico e dabbene ha agito per anni in questo modo con gli animali, esasperandone i lati umani per imbestiare più facilmente l’animale-uomo.

Nel frattempo meccaniche impersonali, sorrette da psichismi emotivi e manganelli giuridici, avanzano come cavalli di troia verso la cittadella dei non allineati, i ribelli di jüngeriana memoria, coloro che nella natura manifesta del sacro, e nella sacralità immanente alla natura visibile, individuano il centro dell’esistenza e dell’opera umana. Con tutte le magnifiche, irrinunciabili differenze e gradazioni di cui si compone l’essenza non nichilista nel nichilismo.

@a_g_giuli

Foto Ansa

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