Non lasciamo fallire i referendum sulla giustizia

Dobbiamo cercare di fare in modo che i referendum sulla giustizia non finiscano per essere un flop. Qualcosa si può fare.

Caro direttore, mi collego al tuo articolo, molto opportuno e appropriato sull’esigenza di una riforma copernicana della giustizia.

Sono, personalmente, molto d’accordo sia con la tua diagnosi, sia con entrambi i giudizi da te riportati ed espressi dal Centro Studi Livatino e dall’ex procuratore Carlo Nordio.

È chiaro che il referendum non è lo strumento più adatto a dare corpo, finalmente, ad una seria riforma della giustizia, che implica anche l’affronto di tematiche molto tecniche, che non possono mai essere sintetizzate in un quesito referendario. Su questo non ci piove. D’altra parte, dobbiamo anche prendere atto che la politica espressa dall’attuale Parlamento non riesce, da sola, a procedere liberamente in un percorso riformatore. È complice, in questo, anche il popolo italiano, che ha portato in Parlamento il 30% di deputati e senatori del M5s che in tema di giustizia sono dei veri e propri barbari. Il referendum, dunque, non è uno strumento adatto, ma il Parlamento, a cui spetterebbe il compito legislativo, è nella sostanza paralizzato da paure e da sensi di colpa. Ed allora, che fare?

Per rispondere alla domanda, non ha torto Nordio quando individua nel referendum uno “strumento di pressione” che dovrebbe indurre il Parlamento a svegliarsi dal proprio colpevole torpore, anzi sonno.

A questo punto, allora, nasce il vero problema. Tutto andrebbe in soffitta se, come tu giustamente paventi,  i referendum finissero con essere un clamoroso flop (e non a caso molte forze politiche stanno già lavorando, in vari modi, in questo senso). Se ci fosse il flop, la situazione diventerebbe gravissima, perché dei temi affrontati nei referendum non se ne potrebbe più parlare per molti anni. Oggi, in Italia, non si può parlare di nucleare a causa di un referendum tenutosi, in situazioni totalmente diverse dalle attuali, molti anni fa. Sarebbe, cioè, un disastro, anche perché i temi affrontati nei referendum sono comunque seri. Dei cinque rimasti in piedi, a me sembra che sarebbe di enorme importanza, oltre a quello da te giustamente citato e riguardante la custodia cautelare, quello che richiede la separazione delle carriere tra i magistrati giudicanti e quelli inquirenti. In moltissimi Paesi questa separazione esiste, perché essa ha una logica stringente: non vi può essere confusione tra l’organo dell’accusa e quello terzo che deve giudicare. In Italia non si riesce ad arrivare a questa elementare riforma solo per piccoli motivi corporativi, che non hanno nulla a che vedere con un equa impostazione della giustizia.

Detto questo, penso che dobbiamo cercare di fare in modo che i referendum sulla giustizia non finiscano di essere un flop. Qualcosa si può fare.

1 Innanzitutto, i referendum dovrebbero tenersi nello stesso giorno delle prossime elezioni amministrative. Tutti i politici che hanno veramente a cuore la sovranità popolare DEVONO battersi in questo senso e noi dovremmo aiutare l’opinione pubblica a sostenere questa posizione, anche perché essa ci farebbe risparmiare un bel po’ di soldi.

2 Dovremmo concentrare, comunque, la campagna referendaria su due referendum: quello che riguarda la custodia cautelare e quello che riguarda la divisione delle carriere. Quattro referendum sono troppi da sostenere. Ciò comporta che dovremmo, comunque, impegnarci in questa campagna, non dando per scontato il flop.

3 Nel frattempo, i parlamentari dovrebbero accelerare al massimo il dibattito già in corso sulla giustizia, inserendo nella riforma proposta dal Governo anche i due temi appena indicati. Questa sarebbe la via più semplice perché i referendum raggiungano il loro scopo.

Dovremmo tutti quanti tenere vivo il dibattito su uno degli aspetti fondamentali della vita democratica di un Paese, perché una giustizia gestita male danneggia un popolo intero, come ebbe a dire una solitaria voce profetica all’inizio della irruzione di “Mani Pulite”, che certamente, come oggi a trent’anni di distanza molti riconoscono, non ha contribuito ad aumentare il benessere dell’Italia.

Peppino Zola

Foto Ansa

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