Non “guariti”, ma “curati” con amore. L’autismo e la vita

Mangiare cose diverse, allacciarsi le scarpe, “sopportare” che in una stanza gli oggetti cambino posto. La storia del Centro Gaetano e Mafalda Luce

Chiara ha tolto il pannolino. Luigi ha smesso di nutrirsi esclusivamente di pizza al pomodoro. Sono le conquiste che emozionano i genitori di tutti i bambini del mondo, ma per alcuni di loro sono molto di più: traguardi che tracciano perimetri di normalità. Allacciarsi le scarpe, mangiare quello che capita, essere in grado di ripetere gli stessi gesti in contesti diversi. Sono cose del genere che permettono a un bambino autistico di essere domani un adulto con un margine di indipendenza migliore e dunque una vita sociale meno difficile. È per questo che il centro semiresidenziale del Centro Mafalda Luce per i disturbi pervasivi dello sviluppo di Milano è strutturato come una palestra di normalità, in grado di accogliere bambini dai 18 mesi ai quindici anni. «Se mia figlia avesse avuto un posto così ci saremmo risparmiati tante sofferenze», sorride Maurizio Ferrari, responsabile della comunicazione di Fondazione Renato Piatti onlus, che gestisce il centro terapeutico riabilitativo ospitato al piano terra del Centro Mafalda Luce, e papà di Martina, oggi ventiduenne. Oltre vent’anni fa, quando Martina era una bambina isolata, disinteressata ai coetanei e alla funzione dei giochi proprio nell’età in cui la mente di un bambino si apre all’interazione con gli altri e col mondo, il suo papà e la sua mamma si sono sentiti apostrofare come troppo apprensivi. Ci sono voluti anni per una diagnosi corretta e gelida: autismo.

Cosa sappiamo dell’autismo
Nel 1985 nascevano 3-4 bambini autistici ogni 10 mila. Oggi ne nasce uno ogni cento. «Oggi a differenza di allora – spiega Antonio Maria Persico, professore associato di neuropsichiatria infantile presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma e responsabile dell’Unità ambulatoriale del Centro Mafalda Luce– le diagnosi sono certe. Bambini che un tempo sarebbero stati definiti schizofrenici o ritardati sono in realtà autistici. Inoltre c’è con ogni probabilità un reale aumento dei casi». Perché? Ha ragione chi mette sotto accusa i vaccini? Il professor Persico è abituato a rispondere a questa domanda sempre più spesso. «Un vaccino non può spostare le cellule nervose nel cervello delle persone – spiega. Le cellule neuronali si posizionano in epoca prenatale. Se quelle reti sono anomale hanno bisogno di maggiore energia per lavorare. Questo significa che, di fronte a un qualunque fenomeno che richieda uno sforzo delle cellule ancora maggiore, possono andare in tilt. Come se fosse un sovraccarico di corrente. Il fenomeno che richiede uno sforzo maggiore delle cellule può essere la febbre o un qualunque fattore che non darebbe alcun problema se la situazione di partenza fosse normale. Allora non parliamo di cause ma di fattori che portano allo scoperto un problema. Il vaccino può “slatentizzare” una situazione già compromessa, non esserne la causa. Quello che oggi sappiamo è che l’autismo è una malattia in cui interviene una combinazione di fattori differenti: di sicuro una componente genetica e anche alcuni fattori ambientali. Gli studi seri dimostrano che l’incidenza dell’autismo è la stessa in popolazioni con protocolli vaccinali differenti e con composizioni differenti dei vaccini». Paolo Aliata è il responsabile del centro terapeutico riabilitativo che ha sede presso il Mafalda Luce di via Rucellai. Anche a lui viene spesso rivolta la domanda sui vaccini. Perché la croce di una famiglia che deve far i conti con una diagnosi così spiazzante è la quotidianità, ma la vertigine è quella del perché.

Lo specchio rotto
Lo staff di Fondazione Piatti, che opera dal 2000 e conta diverse strutture per disabili, bambini e anziani tra Varese e provincia, usa la metafora dello specchio rotto tenuto insieme da una cornice. All’improvviso la cornice viene tolta e i pezzi vanno in giro dappertutto. Aliata e gli educatori che lavorano con lui sono quelli che vanno in giro a recuperare i pezzi. Stando attenti a non farsi male e sapendo che quello specchio potrà essere in parte ricomposto, ma non tornare come nuovo. «È la cosa più difficile da affrontare per un genitore», spiega Aliata. «Accettare che i propri figli non usciranno da qui “guariti”». Eppure una diagnosi e un intervento terapeutico precoce possono fare la differenza, migliorando in modo significativo le abilità e le autonomie dei bambini con autismo. Tecnicamente quello che sorge al piano terra in via Rucellai, in zona viale Monza, è un Ctrs: Centro Terapeutico Riabilitativo Semiresidenziale. Accreditata con la Regione Lombardia, la struttura funziona come una sorta di scuola, in cui i bambini, divisi per fasce di età, vengono per sessioni di un paio d’ore, inviati dalle Uonpia pubbliche, ossia le Unità Operative di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza. È accreditata anche l’Unità Ambulatoriale e la Medicina di Laboratorio per la genomica dedicata al disturbo autistico dirette da Persico, che è ora in attesa della messa a contratto da parte di Regione Lombardia per poter erogare i propri servizi di assistenza in convenzione con il Servizio sanitario nazionale.

“Pit stop. Quando è troppo” 
Nelle stanze grandi e accoglienti del Centro Semiresidenziale si ricreano situazioni della vita normale: la palestra, la camera da letto, la scuola, il teatro. Fuori da ogni stanza c’è una targhetta che identifica il luogo e l’azione: “Come a casa. Abito”; “Lo spogliatoio. Mi preparo”; fino a “Pit stop. Quando è troppo”, per indicare la stanzetta in cui ci si rifugia, insieme a un educatore, quando la socialità pesa troppo. Dare un nome alle cose è un passo cruciale. Lo è per tutti, lo è massimamente per una persona affetta da autismo, che vive come se ogni esperienza fosse un unicum, un territorio sacro e inviolabile in cui ogni cambiamento è percepito come un fattore di disturbo che minaccia la sopravvivenza del mondo di chi la vive. «Se c’è una panchetta disposta diversamente Giulio inizia ad urlare», racconta Aliata. Poi c’è Marco che da sempre appoggia la fetta di limone sulla bistecca invece di spremerla. «E se avesse ragione lui?», si chiede Aliata. E poi le sorprese, come Maria che abbraccia un’altra bimba che non vedeva da una settimana. «Un bimbo autistico fa i capricci come tutti gli altri, ma può avere reazioni anche molto violente».

Non sono tutti Rain Man
L’immagine diffusa è quella di Dustin Hoffman che conta gli stuzzicadenti che cadono per terra in Rain Man. In realtà il cosiddetto autismo ad alto potenziale, dove impacci relazionali o emotivi vengono compensati con grandi abilità in alcuni campi, è rarissimo. La maggior parte dei soggetti autistici fatica a parlare, ha scatti violenti verso sé e gli altri. È questo che conduce le famiglie all’isolamento. Quello che accade a una mamma nei primi mesi di vita del figlio, di essere risucchiata in un mondo nuovo in cui non ci sono più riposo e intimità, per i genitori di un bambino autistico è una condizione costante. A volte lasciare il proprio figlio in un posto fidato significa poter respirare per qualche ora prima di tornare “sul ring”. Mentre i figli sono impegnati con gli educatori i genitori hanno una stanzetta per loro. Si legge, si guarda la tv, si usa il computer. C’è anche una piscina, gestita da un operatore privato, che viene utilizzata per le attività del centro ed è aperta al quartiere. «Oggi – riprende il professor Persico – c’è una maggiore consapevolezza circa gli approcci terapeutici che funzionano, quello che manca sul territorio è una rete di servizi che sia in grado di sostenere tutti gli utenti. Il genitore ha magari anche una diagnosi precoce, ma poi si ritrova spesso solo». A fine novembre, concludendo la Conferenza internazionale promossa dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari e dedicata proprio all’autismo, papa Francesco ha invitato a spezzare l’isolamento creato da questa malattia. «Il Papa – nota Persico che era tra i relatori del convegno – si è ricordato sia degli operatori che degli scienziati, perché ambedue lavorano per rendere curabile quello che oggi non lo è».

La mia impresa più bella
Le parole del Papa sono giunte al cuore anche di Giuseppe Luce, l’imprenditore che arriva alla fine di questo racconto ma che è all’origine di questa storia. Pperché in via Rucellai non ci sarebbe il Centro che c’è oggi se lui, specializzato in operazioni immobiliari, non avesse ascoltato le richieste della signora Riva, allora presidente dell’Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici (Angsa) Lombardia. Si erano incontrati per caso, durante una raccolta fondi organizzata per il Campus Biomedico di Roma dalla moglie di Luce. Per arrivare dove siamo oggi ci sono voluti anni e una determinazione superiore a quella necessaria per la più complicata delle operazioni immobiliari. «Eppure è una delle cose più redditizie che abbia fatto e non certo in termini economici», racconta Luce a Tempi. È stato Giuseppe Luce a entrare in contatto con la Fondazione Piatti, a coinvolgere l’équipe del professor Persico e a volere che nello stesso centro fossero presenti l’ambulatorio dell’Università Campus Bio-Medico, le aule di formazione, la struttura semiresidenziale e la sede dell’Angsa Lombardia. Il centro è intitolato alla memoria della signora Mafalda, mamma di Giuseppe Luce. Perché di mamme determinate è piena questa lunga e importante storia.

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