Musk il rompibolle. Compra Twitter e svela il bluff progressista

Panico nelle redazioni e tra gli opinionisti per l'acquisto del social network da parte del fondatore di Tesla. Il problema non sono i suoi soldi o la sua idea di free speech, ma il fatto che non fa parte del giro "giusto" e non è di sinistra

L’uccellino simbolo di Twitter fuori dalla sede del social network a New York (foto Ansa)

I dirigenti di Twitter hanno accettato l’offerta avanzata da Elon Musk per l’acquisto del 100 per cento del social network. È bastata la notizia ufficiale per svelare il bluff che il mondo dei giornalisti e pensatori progressisti portano avanti da anni sulla piattaforma creata da Jack Dorsey. Al momento nessuno sa quali cambiamenti apporterà Musk a Twitter – si è limitato a twittare che vuole combattere i bot, autenticare gli account delle persone vere, dare più libertà di parola e fare qualche aggiustamento tecnico – eppure da sinistra si è già alzato il grido per l’allarme democratico. Gli stessi che quando Donald Trump venne cacciato dal social spiegavano che «Twitter è una piattaforma privata, può fare quello che vuole», oggi si dicono preoccupati che un privato possa fare quello che vuole con Twitter.

Il free speech secondo Musk e le urla dei progressisti

Libertario estremo, per promuovere la sua acquisizione Musk ha puntato tutto sulla volontà di garantire il free speech, oggi limitato su Twitter. Ma se ha offerto 54,20 dollari per azioni che fino a ieri ne valevano 39 è perché ha capito che ci sono margini di crescita nonostante la frenata degli ultimi anni che ha visto calare drasticamente l’aumento di nuovi utenti. Il punto cruciale è quello della moderazione dei tweet, grazie alla quale l’attuale board dirigenziale di Twitter ha indirettamente fatto politica, indirizzando il dibattito pubblico e istituzionale su diversi temi.

«L’attuale gestione ha ragione sul fatto che la maggior parte degli utenti dei social media non vogliono un bagno quotidiano di bot russi, propaganda jihadista, molestie nocive e così via», ha scritto il Wall Street Journal. «Eppure i signori della tecnologia della Silicon Valley hanno deciso di voler essere arbitri del discorso su argomenti politici come il cambiamento climatico e le origini del Covid. Spingere la moderazione indietro di diverse tacche potrebbe promuovere un coinvolgimento più ampio, anche se c’è da aspettarsi che i progressisti urlino».

Allarme democratico e perdita di potere

Detto, fatto: «Twitter non è mai stato un luogo per discorsi razionali e sfumati. Aspettatevi che diventi molto, molto peggio», ha commentato il New York Times, spaventato dalla decisione del cda del social network che «pensa che alla società farebbe meglio essere di proprietà di un uomo che usa la piattaforma per diffamare i suoi critici, fare body-shaming, sfidare le leggi e vendere criptovalute». «Perché la democrazia sopravviva abbiamo bisogno di più moderazione, non meno», ha twittato l’opinionista del Washington Post Max Boot, là dove per “moderazione” si intende anche censura delle opinioni considerate “pericolose” da una certa corrente di pensiero. E a proposito di Washington Post, il giornale di proprietà del miliardario fondatore di Amazon Jeff Bezos, ha pubblicato un editoriale in cui si chiedeva una regolamentazione da parte del governo «per impedire ai ricchi di controllare i nostri canali di comunicazione».

Il bluff è stato scoperto: chi si agita per l’arrivo di Musk più che per la tenuta della democrazia, è preoccupato dal fatto che Twitter non indirizzerà più la discussione pubblica secondo quello che piace a loro. Chi in queste ore sottolinea con sarcasmo il fatto che su Twitter si può già insultare liberamente, minacciare e diffamare coperti dall’anonimato evita volutamente il punto, che è un altro, altrimenti perché darsi tanta pena a sinistra? Quando Donald Trump venne bannato da Twitter, la narrazione prevalente era quella della libertà di scelta di un’azienda privata, con annesso ricatto: «Se non ti piacciono queste regole, fatti un tuo social network». Lo stesso dovrebbe valere adesso che l’arrivo di Musk preoccupata tanti democratici, eppure non è così: altro bluff scoperto.

La piazza “pubblica”. Per le opinioni dell’élite

«Twitter funge de facto da piazza pubblica», ha twittato Musk un mese fa: ecco perché il fondatore di Tesla lo ha voluto comprare, ed ecco perché tanti sono preoccupati: «È uno strumento fantastico di coordinamento narrativo», ha ben sintetizzato Sam Ashwoth-Ayes sullo Spectator, più in particolare di «coordinamento per l’opinione d’élite». Negli anni è diventata una gigantesca bolla in cui giornalisti, accademici, politici e spin doctors discutono continuamente tra loro, pubblicano giudizi in poche battute, condividono opinioni e informazioni, ricevono feedback (insulti compresi, liquidati a volte con sarcastica superiorità altre con vittimismo) e infine trasformano il prodotto di queste discussioni in articoli, dichiarazioni e decisioni politiche.

È così che l’opinione pubblica viene plasmata, con l’aggiunta di un board dirigenziale imbevuto della monocultura progressista che va forte nella Silicon Valley, e che mette filtri alle notizie e alle opinioni non gradite chiamandole fake news. Se puoi esercitare il controllo su quale materiale è promosso e consentito, puoi fare molto per influenzare questo processo, da una parte e dall’altra. Cacciare un ex presidente degli Stati Uniti perché considerato una minaccia per la democrazia e lasciare attivo l’account di un leader dello Stato islamico è una scelta politica. Sospendere l’account del New York Post perché pubblica una notizia che può indebolire Joe Biden nella sua corsa alla Casa Bianca è una scelta politica. Dare meno visibilità a chi critica il catastrofismo ambientalista o le politiche restrittive di contenimento del Covid è una scelta politica.

Il problema di Musk è che non fa parte della bolla

Ecco perché chi si sente dalla parte giusta della storia sta già celebrando i funerali al Twitter-come-lo-conoscevamo, preconizza la fine del mondo libero nel caso di un ritorno di Trump sul social, organizza la resistenza ricordando che «Musk non ha comprato noi» (Gianni Riotta), mette le mani avanti dicendo che se non sarà come piace a loro «non ci interessa più» (Beppe Severgnini), dice che «è in gioco la libertà di espressione» e naturalmente che ha ragione Obama quando chiede più restrizioni su ciò che viene postato sui social (Riccardo Luna).

Come succede per le elezioni politiche in tutto il mondo, per cui quando vince la sinistra vuol dire che la democrazia sta bene e quando vince la destra c’è un problema democratico (quelli che “se Musk compra twitter cancello l’account” ricordano tanto i “se vince Trump scappo in Canada”), l’acquisto di Twitter da parte di Musk è stato subito percepito per quello che è: una perdita di potere dell’establishment liberal. Ecco perché i suoi cani da guardia hanno iniziato subito ad abbaiare pavlovianamente. Il problema di Elon Musk non sono i suoi soldi, né le numerose controversie che ha con i dipendenti delle altre sue aziende, non è neppure la sua idea libertaria di free speech, ancora tutta da verificare. Il problema di Elon Musk è che non fa parte della bolla, e non è di sinistra.

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