Le violenze di Capodanno e la radice del problema sicurezza a Milano

Il sindaco Sala ribadisce che la città «non è Gotham City», ma la percezione di insicurezza aumenta nonostante la diminuzione dei reati. Quel fattore culturale che la sinistra non vuole vedere

«Milano non è Gotham City». Lo ha detto il sindaco di Milano, Beppe Sala, durante tutta la campagna elettorale per la sua rielezione. In qualche modo è la posizione tenuta anche in questi giorni, a seguito dei gravi fatti di violenza avvenuti in città dalla notte di capodanno in poi.

Se da un lato è vero che i numeri parlano di una riduzione di reati denunciati, dall’altra c’è un diffusa percezione di insicurezza che il suo peso lo ha. Al di là della pur impressionante concentrazione di episodi come documentato dalla recente cronaca.

È come sulla vicenda dei migranti. Va da sé che chi sbarca in Italia non è un pericoloso terrorista o per forza un criminale. Però se decine di giovanotti eritrei vengono abbandonati per intere settimane, per esempio, nei giardini di Porta Venezia, perché il sistema dell’accoglienza (anche per via dei grossi numeri) non prevede percorsi di formazione professionale in vista di un loro inserimento lavorativo o anche di un rimpatrio assistito, è chiaro che sempre più madri con bambini evitano di frequentare quei luoghi durante i loro pomeriggi.

Meno reati non significa più sicurezza

Le equazioni facili attribuite alla destra becera e populista, le fanno in senso contrario anche a sinistra. Meno reati denunciati non è per forza uguale a più sicurezza. Che quest’ultima sia il risultato di una coesione sociale, non significa che per porre fine alle scorribande in piazza dei Mercanti il Comune debba inviare mediatori culturali – come pure in passato è stato ipotizzato da parte dell’Amministrazione.

O ancora: è vero, come ha detto il sindaco durante il suo intervento a Palazzo Marino di lunedì, che la didattica a distanza ha enormemente acuito un disagio giovanile che molto spesso è alla base delle violenze di gruppo compiute dai branchi; tuttavia ciò non significa che i responsabili debbano godere del beneficio offerto dal prefisso del “re-“, come disse Finkielkraut (i giovani sarebbero giustificati in quanto re-agiscono a un’ingiustizia). Altrimenti, seguendo questa strada, si arriva al paradosso leninista di liberare i criminali dalle carceri zariste, perché considerati vittime in realtà della società ingiusta dei borghesi.

Il problema della polizia locale

La sicurezza è, allora, tante cose. Come non si risolvono i problemi semplicemente militarizzando la città, nemmeno si può fare spallucce dicendo che questa è competenza esclusiva dello Stato, invitando così la cittadinanza a portare le proprie doglianze a Prefetto e Questore. In particolare per il Comune di Milano esiste una questione di governo della Polizia locale che la giunta non ha mai voluto affrontare.

Non si sono voluti ascoltare vari campanelli d’allarme che nel tempo si sono susseguiti: dagli agenti del nucleo antidroga che sottraevano sistematicamente denaro nel corso di perquisizioni di cui falsificavano poi i verbali, ai quattro vigili che in soli due anni si sono tolti la vita con pistola d’ordinanza e metà dei quali condividevano il luogo di lavoro (la centrale operativa); fino all’avvicendamento al comando della Polizia locale – per il quale non si è mai spiegato perché a sostituire Antonio Barbato si è scelto Marco Ciacci, proveniente dagli uffici della procura e non da esperienze di strada e operative, che tra l’altro non aveva partecipato a quel concorso dell’autunno 2016 con cui si era scelto il predecessore e che pure aveva visto molti altri esterni partecipare e fra i quali si sarebbe potuto pescare per ricoprire quell’incarico.

Una diffusa domanda di sicurezza a Milano

Da questo punto di vista è stato significativo che, per la prima volta in undici anni di amministrazione da parte della sinistra, si siano accolte proposte di esponenti dell’opposizione per provare a ripensare una risposta del Comune nei limiti delle proprie competenze a una diffusa domanda di sicurezza. Nella seduta di lunedì 17 gennaio, infatti, il Consiglio comunale ha approvato con parere favorevole della giunta la mia proposta di un “Patto per una Milano sicura”.

In essa sono previste tre direttrici di lavoro da portare al tavolo provinciale per l’ordine e la sicurezza in cui siede di diritto il sindaco: sostituzione degli uomini delle forze di polizia e di Polizia locale dediti a mansioni d’ufficio con ex agenti in pensione in modo da garantire un maggior presidio delle strade in attesa dei tempi lunghi per le nuove assunzioni; la promozione di pattuglie miste, che integrano e coordinano poliziotti, carabinieri e vigili, da assegnare a quartieri o zone ritenute particolarmente a rischio; l’istituzione di un “premio di produttività” per quelle pattuglie nei cui territori presidiati si registra nell’arco di un anno un calo dei reati denunciati.

L’emergenza educativa e il relativismo culturale

La sicurezza, si è detto, è allora tante cose. E qui torniamo al tema posto anche da Sala, cioè a quella emergenza educativa di cui ne sono spia le aggressioni che vedono protagonisti sempre più adolescenti. È vero. Se non si vuole rimanere in superficie occorre scavare a fondo e si arriva lì. Tuttavia l’emergenza educativa non si affronta con quel relativismo culturale che spiega il silenzio di dieci giorni della giunta sulle violenze in piazza Duomo. La giunta infatti è entrata in un cortocircuito per cui, se da un lato non vuole dire nulla su fatti che coinvolgono una mentalità di taluni stranieri o giovani di seconde generazioni, dall’altra non poteva cadere nella contraddizione di tacere sulle violenze contro le donne.

Il laicismo intollerante, che costituisce ormai lo zoccolo duro dell’ideologia di una sinistra spogliatasi di tutti i temi relativi al lavoro e alla giustizia sociale, non abilita a entrare in quel dialogo tra culture che può aiutare la persona a riscoprire la propria tradizione e, quindi, la propria identità. Per tirar su intere generazioni non bastano le panchine tinteggiate di rosso e le iniziative per progettare il rispetto nelle scuole. Specie se questo implica la censura di quel fattore religioso che solo comunica un’ipotesi di significato per l’esistenza e costringe a vivere la vita come convivenza.

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