Il conto salato del “cambiamento”: Milano è in rosso e Pisapia conosce solo il linguaggio delle tasse

Più tasse per tutti: dall’aumento dei biglietti dei mezzi pubblici all’imposta di soggiorno negli hotel. E se l’Imu è solo rimandata, l’Irpef non aspetta

La libertà è partecipazione. Così cantava Giorgio Gaber. E Giuliano Pisapia è arrivato a Palazzo Marino proprio sulla scia dell’evocazione di una partecipazione di tutta la città, di tutti i milanesi, contrapposta a una Letizia Moratti presentata come troppo poco popolare, troppo dama da salotti buoni e signora dei poteri forti. Ma la promessa di democrazia partecipativa, di un coinvolgimento che desse pari dignità alla periferia come al centro è sempre più declinata sotto forma di partecipazione ai costi, quasi prendendo alla lettera le parole con cui Tommaso Padoa Schioppa, da ministro preposto nel secondo governo Prodi, descrisse la partecipazione alla civile convivenza e al bene comune che si realizza anche per via fiscale attraverso la formula – ingenuamente radical chic – «Le tasse sono una cosa bellissima».

A San Paolo, la Milano del Brasile, un rincaro di 20 centesimi di real (0,07 euro) sul costo del biglietto di un mezzo di trasporto pubblico ha dato vita alla protesta su scala nazionale con cui una popolazione sempre più avviata verso un benessere borghese ha manifestato la propria insofferenza nei confronti della mano pubblica e degli obiettivi per i quali essa si muove. Nella capitale economica d’Italia, una popolazione portata allo stremo dalla crisi si appresta a subire l’ennesimo rincaro delle tariffe dell’Azienda trasporti milanesi (Atm), che Pisapia aveva ereditato dalla Moratti al livello di un euro, portato in 3 mesi a 1,50 (con un ricarico del 50 per cento) e che ora si accinge a elevare a 1,70 euro. E se è vero che l’amministrazione cittadina di centrosinistra ha dovuto per ora rinunciare a una fetta consistente del gettito Imu, è altrettanto vero che la precedente gestione comunale si è vista privata della (meno fruttifera) Ici e non ha mai potuto usufruire dell’Imu stessa. Né aveva fatto ricorso all’addizionale Irpef.

Dalle classifiche redatte annualmente dalla Cgia di Mestre emerge una costante gara al sorpasso, negli ultimi anni, tra Milano e Roma per il primato di città con la più alta incidenza di imposizione fiscale locale (Imu, Cosap, Tarsu/Tares, addizionale Irpef). Rispetto a Roma, tuttavia, Milano gode di una maggior densità abitativa, derivante da una popolazione che è meno della metà di quella della capitale e di un’estensione – almeno fino alla realizzazione della città metropolitana – che è 10 volte inferiore. Non solo, dunque, meno persone da raggiungere coi trasporti pubblici piuttosto che con le forniture di luce e gas, ma anche più vicine. Eppure il testa a testa prosegue, di anno in anno.

Mancano ancora 240 milioni
Come una sarta intenta a rammendare a colpi di forbice, l’assessore al Bilancio Francesca Balzani ha chiamato i colleghi di giunta a risparmi per quasi 200 milioni di euro negli anni a venire. L’alt all’Imu ha consentito di guadagnare tempo: in vista della riformulazione di quell’imposta i Comuni si sono visti prorogare a settembre l’ordinaria scadenza del 30 giugno per l’approvazione del bilancio; per Milano, però, ballano ancora circa 240 milioni di euro, da reperire per coprire le spese. Alle prese con difficoltà in proporzione analoghe, la Grecia ha appena chiuso la Ert, l’emittente radiotelevisiva pubblica per la quale lavoravano circa 2.700 dipendenti. Intorno a Palazzo Marino continuano a gravitare oltre 18 mila persone (anche più dei 13 mila della Rai). «Via Larga è piena di gente – osserva a Tempi l’ex consigliere comunale Claudio Santarelli, oggi coordinatore del dipartimento Expo del Pdl ambrosiano – ma a cosa servono? La verità è che in questa città c’è ancora troppo Comune e manca fantasia politica: quella dei minori trasferimenti da Roma è una scusa. I minori trasferimenti e il patto di stabilità sono precedenti a Pisapia, ma con lui le spese correnti non sono calate. Oggi Pierfrancesco Majorino (assessore alle Politiche sociali, ndr) dice che ridurrà i fondi alle associazioni, ma in due anni nessuno si è messo a ragionare su una revisione dei costi di funzionamento dell’apparato, su dismissioni che lasciassero al Comune le partecipazioni davvero strategiche consentendo in parallelo di fare cassa».

Non da meno dei giornalisti dalle parti dell’Acropoli ateniese, peraltro, anche molti dipendenti milanesi hanno fatto sentire la propria voce di protesta: non per essere stati lasciati a casa, sacrificati sull’altare del risanamento come nel caso della tv ellenica, ma per gli aumenti – da 25 a 30 centesimi il caffè, da 30 a 70 i biscotti, da 0,70 a 1,10 euro le merendine al cioccolato – introdotti ad aprile nei 313 distributori automatici degli uffici municipali. In una fase in cui prende sempre più corpo la reazione che considera le politiche di austerity depressive e tali da uccidere il paziente, Expo può essere la via di salvezza di Milano. Come in un riflesso pavloviano, la giunta per ora sembra aver colto solo la possibilità di “arare” il portafoglio di quanti verranno in città prima per preparare e poi, più massicciamente, per visitare la maxi-fiera dall’1 maggio al 31 ottobre 2015. La tassa di soggiorno per i pernottamenti in hotel, introdotta a Milano nel settembre 2012, è stata alzata di un euro a notte a partire dal primo luglio. Lo ha stabilito la giunta comunale: si pagheranno due euro negli alberghi a una stella, tre euro nei due stelle, quattro euro nei tre stelle e cinque euro per tutti gli altri hotel e strutture ricettive.

Ma Expo potrebbe essere l’occasione perché il governo nazionale permetta a Milano – che non aspetta altro – di derogare quel patto di stabilità interno che, nel porre un freno alle spese, viene vissuto da tutti gli enti locali come una camicia di forza. La salvezza per i milanesi, insomma, può giungere solo da fuori – da Roma – e dall’eredità – Expo – che la donna da jet set internazionale un tempo a Palazzo Marino ha lasciato loro. Come in un circolo vizioso, l’addizionale Irpef, introdotta proprio dall’amministrazione Pisapia, è in procinto di essere portata al massimo consentito (0,8 per cento, con esenzione dal prelievo per redditi inferiori a 15 mila euro e non più 33.500). Questo potrebbe amplificare ben oltre gli 8 chilometri quadrati del centro – area in cui è racchiuso un quarto dei negozi meneghini – il peso esercitato da Area C sulla vivacità imprenditoriale milanese e sui relativi proventi per lo stesso Comune. La chiusura di 675 esercizi commerciali nel primo quadrimestre dell’anno, al ritmo di 6 serrande abbassate definitivamente ogni giorno, contro 327 aperture in totale, sono dovute – oltre che al sempre più massiccio shopping online – a un’amministrazione che non vuole tirare la cinghia in un’epoca in cui qualsiasi cittadino la cinghia la tira. Con la chiamata dei cittadini a partecipare fiscalmente, con l’addizionale Irpef come con l’Imu, portata dal 4 al 5,5 per mille sulle prime case per le quali resta applicabile, e in un quadro suscettibile di peggiorare ulteriormente – il rincaro dell’Iva è solo posticipato, ndr –, Milano è stata resa una sorta di landa progressivamente desertica quanto mai bisognosa di poter sfruttare quell’“Energia per la vita” che, come da leitmotiv dell’evento, l’Expo può portare fin dalla sua fase di preparazione. Ma attraverso gli “Expo days”, ogni giovedì a Milano, Confcommercio ha avuto modo di riscontrare gli ostacoli che l’amministrazione in carica continua a frapporre agli stakeholders di Expo (coloro cioè che contano sull’effetto leva, in termini economici, dell’evento): riduzione delle tariffe Atm, della Cosap (tassa di occupazione del suolo pubblico applicata ai venditori ambulanti) e dell’orario di Area C restano argomenti per i quali è difficile persuadere Palazzo Marino.

Cosa succederà dopo Expo non è ancora chiaro anche se Pisapia avrebbe dichiarato di non avere intenzione di ricandidarsi nel 2016 – al momento il successore designato del sindaco uscente dovrebbe essere l’assessore all’Urbanistica Ada De Cesaris – ma ciò che è chiaro è che «Palazzo Marino è solo spettatore in troppe cabine di regia per Expo», osserva ancora Santarelli, chiedendosi quasi desolato «che senso abbia avuto l’ordinanza poi revocata del gelato fino alle ore 24». Al lavoro – per il 2015 – su un’idea maturata sulla falsariga delle “Notti rosa” nella natia Emilia Romagna, il presidente del comitato Expo 2015 di Confcommercio, Giorgio Rapari si augura tuttora «un colpo di reni finale, nel quale noi italiani siamo specialisti». Ma la ribadita volontà comunale di delocalizzare la nightlife cittadina con cui si è scontrata la riabilitazione della movida che gli operatori del settore speravano potesse essere favorita da Expo induce, non solo lui, a guardare con rimpianto figure come il quasi mitico sindaco della Bologna del Dopoguerra Giuseppe Dozza, capace di esprimere un’anima “rossa” e una non meno accentuata efficacia nella conduzione del pubblico interesse. L’amministrazione milanese attuale, invece, coglie in Expo anzitutto l’occasione in concomitanza della quale indire un apposito Gay Pride e in vista del quale aprire una “Casa dei diritti” (a costo zero, promette l’assessore alle Politiche sociali Majorino, perché ricavata da spazi già a disposizione del municipio).

È sempre colpa di chi non c’è più
Senza nostalgie per Dozza o altri, Giacomo Beretta, l’assessore al Bilancio dell’epoca morattiana, ricorda il parere dei revisori dei conti al primo bilancio, il consuntivo 2011, dell’era Pisapia: «Già lì si sottolineava quanto fosse grave non aver proseguito lungo il percorso della spending review avviato in precedenza. Il maggior prelievo per coprire le spese e tutto il resto, – conclude Beretta– viene di conseguenza». Un’analisi che, nella rudezza di chi s’è visto chiamato in causa a posteriori – secondo la logica che vuole colpevole chi non c’è più – sembra riecheggiare anche nelle parole di Bruno Tabacci, responsabile dei conti della giunta Pisapia nel suo primo biennio: «Io ho esercitato le mie responsabilità davanti al Consiglio comunale», taglia corto. Chiamandosi fuori dal dibattito: «Oggi c’è un nuovo assessore».

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