La nuova centralità internazionale dell’Italia che non piace a Francia e Germania

Il presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, con il Cancelliere tedesco, Olaf Scholz (foto Ansa)

Su Huffington post Italia si scrive: «”Definita un pericolo, ora Giorgia Meloni è la leader più popolare dell’Ue”. Così recita il titolo di un articolo apparso sull’edizione online del 4 febbraio del giornale inglese The Times, testata che già nel 2020 aveva inserito la leader di Fratelli d’Italia – unica italiana – tra i “venti volti che potrebbero plasmare il mondo”. L’articolo rievoca i timori che avevano inizialmente accompagnato l’ascesa di Meloni, legati al fatto che alcuni esponenti di Fdi fossero “troppo apertamente nostalgici” del fascismo, oltre alle battaglie condotte dall’attuale presidente del Consiglio contro Unione europea e mercati finanziari. Invece Meloni, osserva The Times, ha “smorzato” la sua “feroce retorica” schierandosi con Bruxelles. I critici “speculavano su quanto a lungo una leader con poca esperienza di governo potesse tenere insieme una coalizione tripartitica che include due dei suoi più grandi rivali a destra”, ma Meloni dopo 100 giorni di governo sta emergendo come la leader “più popolare” dell’Unione europea. Un successo, sottolinea la testata britannica, dovuto anche all’abilità con cui l’inquilina di Palazzo Chigi ha saputo gestire i rapporti con i partner della maggioranza, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, i quali hanno dovuto accettare un ruolo di “soci di minoranza” all’interno del suo governo”.

In quel pantano che è assai spesso la nostra discussione politica nazionale non si coglie bene il peso politico internazionale che sta acquisendo l’Italia con il governo Meloni: punto di riferimento del Sud est europeo (dalla Grecia a Malta alla Croazia), dell’area più atlantista (dalla Finlandia alla Polonia ai Paesi Baltici), interlocutore di Svezia, Danimarca e Olanda rispetto alle strategie egoistiche franco-tedesche, salda nei rapporti con l’asse egiziano-israeliano, piena di iniziative non solo in Africa ma anche verso la Gran Bretagna e l’area indopacifica. Certamente è realistico quel che sostiene qualche osservatore: questa nuova centralità di Roma disturba una Parigi e una Berlino abituate a comandare invece che a codecidere. Ed è ugualmente vero che l’iniziativa della Meloni è osteggiata da chi, come Emmanuel Macron, sostiene la fine della politica, della destra e della sinistra, sostituite da un approccio tecnocratico incontendibile. L’operazione Ppe-Ecr (popolari e conservatori europei) che contrasta e supera l’idea di escludere strutturalmente una parte dell’elettorato per favorire un consociativismo tecnocratico (un po’ eco tecnocratico, quello tedesco) è vista con ostilità sia in Francia sia nella Germania di un molto incerto Olaf Scholz. Però queste “ostilità” non annullano i risultati raggiunti in questi mesi dal nostro governo, anche se inaspriscono quei settori italiani che da una parte temono un potere politico troppo forte, e dall’altra hanno rapporto subalterno con influenze straniere. E sappiamo quanti guai alla nostra nazione la via libera a influenze straniere ha determinato storicamente: dai partiti “Franza O Spagna purché se magna” del Quattrocento-Cinquecento, ai francesi e inglesi che destabilizzano Giovanni Giolitti e ci portano in guerra nel 1915, alla sciagurata influenza tedesca che ci precipita nella Seconda Guerra mondiale.

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Su Startmag Francesco Damato scrive: «A ispirare quell’acidissimo titolo di prima pagina di Domani, il giornale di Carlo De Benedetti, contro Giorgia Meloni, impegnata nella “strategia della tensione” sul caso Cospito, dev’essere stato anche il rimprovero – chiamiamolo così – mosso personalmente dalla presidente del Consiglio al detenuto anarchico in sciopero della fame di avere già ottenuto con questo tipo di protesta la grazia dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che lo liberò dal carcere procuratosi per ripetuta renitenza alla leva militare. Ma poi egli usò la libertà generosamente concessagli dallo Stato per spingersi sulla strada dell’anarchia sino a gambizzare un ingegnere, di cui non condivideva il lavoro nel settore nucleare, e compiere una serie di attentati dinamitardi senza vittime, per fortuna, ma sempre attentati, rifinendo così in galera. E procurandosi anche il regime speciale di detenzione dell’ormai famoso articolo 41 bis, da cui vorrebbe uscire a qualsiasi costo, anche morendo di digiuno».

Come ha spiegato bene Maurizio Gasparri, un po’ del personale politico di Fratelli d’Italia non si è ancora reso conto di essere l’asse fondamentale del governo nazionale e si comporta non di rado in modo scomposto. Ma ha un qualche senso parlare di “squadrismo”, di “strategia della tensione”? Come osserva Damato queste accuse sono prive di senso. Non c’è niente di simile alla guerra civile post 1918, non ci sono grandi movimenti di massa che scuotevano non solo gli equilibri nazionali ma anche il ruolo internazionale dell’Italia come negli anni Settanta. In realtà quel che ispira i vari Donzelli è essenzialmente la cultura da talk-show che si è impossessata della politica italiana dopo la crisi dello Stato del 1992 e il commissariamento della nostra democrazia dopo il 2011. E in questo contesto quel che veramente colpisce è che un certo stile da guitti scatenati ormai caratterizzi non solo qualche quarantenne impegnato in politica che non si rende conto di non essere più all’opposizione, ma anche media e personalità un tempo magari su posizioni radicali ma con toni autorevoli e oggi sempre più sguaiati, ridicolmente sguaiati come quel quotidiano che un giorno indica i Berlusconi come soci dei mafiosi Graviano e il giorno dopo invoca gli stessi Berlusconi come salvatori della patria.

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Sugli Stati generali Jacopo Tondelli scrive: «Alle spalle c’è una storia lunga “di economia privata dinamica, che funziona, che corre”. La locomotiva d’Italia. Decenni a dire – a ragione – che quassù ci camminava a ritmi tedeschi. Un racconto e un modello di sviluppo che mostrano qualche crisi, qua e là. “E noi abbiamo da un lato bisogno di un lavoro di miglior qualità e meglio pagato”, spiega Majorino. Ma anche – aggiunge – “di confrontarci col paradosso, che a sinistra facciamo fatica a mettere a fuoco, di imprese che offrono il lavoro e di lavoratori non ne trovano, perché non ci sono. Su questi temi abbiamo bisogno di sviluppare a sinistra uno sguardo autonomo sulla Lombardia, senza cedere alla retorica banale che dà la colpa al reddito di cittadinanza, da un lato, e senza però pensare che da Roma riesci a capire questa terra. Non è vero, non ci riesci. Sono cose che già pensavo, però…”. Però, sembra, anche Majorino non le sapeva con la stessa chiarezza, prima di battere la Regione palmo a palmo. “È vero, da questo punto di vista è un’esperienza straordinaria”. Ricordiamo i tempi, ormai remoti, verso il 2005, in cui su questi temi ci confrontavamo, quando Marco Alfieri e io animavamo, sul Riformista, alcune pagine che del complicato rapporto tra sinistra e nord facevano uno dei temi di indagine. “È vero, probabilmente allora la tendenza, anche la vostra, era di guardare a un tema giusto troppo da destra, diciamo così, magari perdendo pezzi importanti di identità e di bisogni, pensiamo ai beni comuni, alla questione ambientale, al futuro di un turismo montano sostenibile. Però, certo, le questioni erano tante, e noi per troppo tempo non ci abbiamo pensato abbastanza“.

Majorino, stimolato da una persona intelligente come Tondelli, ha senza dubbio ragione nel sottolineare come il tema “lavoro” sia il vero buco nero della politica del “Pds, Ds, Pd” di questi ultimi trent’anni. Pensare però di affrontare questo problema con quegli svalvolati peronisti dei 5 stelle non è proprio una grande idea.

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Sulla Zuppa di Porro Corrado Ocone scrive: «Né tanto meno sarà questo governo a farci diventare quel che per fortuna non siamo mai stati: globalisti e cosmopoliti in senso indifferenziato. Detto questo, il problema nostro odierno non è quello delle differenze fra regioni, che sono normali in ogni Stato e che i “fondi di perequazione” previsti anche dalla bozza Calderoli dovranno provare a colmare per l’aspetto economico. I veri problemi a me invece sembrano due, di tipico marchio liberale: da una parte, il fatto che non si può trattare in modo uguale regioni e località tanto diverse; e, dall’altra, la necessità di responsabilizzare, attraverso le più ampie forme possibili di autogoverno, le regioni e gli enti locali e persino ogni singolo cittadino. Vista in quest’ottica, l’autonomia non solo non penalizza il Sud (che penalizzato casomai è sempre stato da politiche centralistiche e di mero assistenzialismo), ma può rappresentare per il Mezzogiorno una grande opportunità. Prima di tutto per mettere in moto quelle energie sopite o che si esprimono solo fuori dal territorio (come è attestato dall’emigrazione di qualità, intellettuale e non, che il Sud ancora offre ad altri parti d’Italia e del mondo). Se ognuno fa per sé quanto più possibile, in uno spirito ovviamente unitario e costruttivo, siamo poi tanto sicuri, pur nelle condizioni diseguali di partenza, che il Sud sia destinato a soccombere? E voler continuare far indossare a tutti lo stesso abito, che per alcuni sarà più stretto e per altri più largo, non è proprio il contrario di un’opzione liberale? Da liberale, e anche da terrone, dico perciò un sì forte a un’autonomia ben studiata e calibrata come quella che verrà (che non avrà nulla a che vedere con quella famigerata e deleteria che fu introdotta venti anni fa dalla sinistra col Titolo V)».

Nella discussione spesso molto scomposta sull’autonomia articolata delle regioni una delle voci più stonate, peggiore persino di certe insensate prese di posizione di Carlo Bonomi, è stata quella di Mara Carfagna: «Ci vogliono far tornare all’Italia dei ducati». A parte che solo qualche anno fa la oggi cavouriana combattente per l’unità della nazione, studiava con Stefano Caldoro come lanciare una macroregione del Sud, oggi questa povera anima travolta dall’avventuroso gorgo renzian-calendiano pare proprio non sapere di che cosa sta parlando. L’Italia dei ducati nella sua fase culminante con gli Sforza, i Medici, la Serenissima, il regno delle due Sicilie raggiunse nel 1454 con la pace di Lodi e l’affermarsi man mano dell’egemonia di Lorenzo il Magnifico la maggiore influenza in Europa degli italiani. L’incapacità di proseguire sulla via mediceo-lodigiana (con la tragica e strategica malattia del duca Valentino che ci ha raccontato Niccolò Machiavelli) fece poi prevalere un dominio straniero per più di tre secoli. E poi la nostra sacrosanta unità nazionale arrivò a metà dell’Ottocento sulla base dell’azione militare piemontese invece che su un processo di integrazione tra i grandi ducati quattrocenteschi. Al contrario del pensiero di fondo di Camillo Benso di Cavour, prevalse infine un modello di stato centralistico di tipo francese che portò anche grandi conquiste economico-sociali ma provocò pure non poche contraddizioni chiaramente emerse nel Novecento. Oggi il processo di integrazione europea che attenua alcuni pericoli per la nostra democrazia intrinseci alla diversità tra le regioni italiane, ci può consentire di tornare sui nodi irrisolti della nostra storia e valorizzare le nostre articolate caratteristiche di fondo, a partire dai magnifici ducati quattrocenteschi così invisi alla sperduta Carfagna.

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