Don Bosco e il Meeting di Rimini: un connubio legato alla ricorrenza storica (ad agosto il via ai festeggiamenti per il bicentenario della nascita del santo), e più ancora all’attinenza con il titolo della manifestazione, “Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo”. Pochi, come il sacerdote torinese, si sono infatti così appassionati agli ultimi e a chi, tra i più giovani, era rimasto ai margini, da riportarne la vita alla dignità del suo significato ultimo. A san Giovanni Bosco è dedicata una delle mostre del Meeting – allestita presso il Villaggio Ragazzi, padiglione C3 – , che mette in rassegna gli episodi più significativi della vita del prete delle periferie, cui si aggiunge uno spazio dedicato all’animazione, ai momenti di gioco e spettacolo per replicare la vita dell’oratorio, luogo prediletto in cui don Bosco radunava i “suoi” ragazzi.
Tra i curatori della mostra, Davide Cestari, che del santo piemontese conosceva poco prima di scoprirne il carisma e portarlo al Meeting. «Sapevo che ad agosto di quest’anno – racconta Cestari – sarebbero partiti i festeggiamenti per il bicentenario della sua nascita che cade nel 2015. È stata una sorpresa straordinaria imbattersi in un uomo così». Innanzitutto, colpisce l’attinenza con il problema legato alle giovani generazioni. «Fatte salve le differenze tra due epoche molto distanti, a tenere banco, allora come oggi, era l’emergenza educativa». In entrambi i casi è la ricerca di senso che preme e comincia a farsi strada nel cuore dei più giovani. «Don Bosco non ha mai preso sotto gamba questa inquietudine, anzi vi ha risposto con la concretezza di una compagnia, senza risparmiare il richiamo alla Verità. C’è un’unica risposta che il santo offre ai suoi ragazzi: Gesù Cristo». All’epoca, le periferie di Torino pullulano di orfani e giovani derelitti, che alimentano povertà e sfruttamento minorile. Anche Giovanni arriva da fuori città, Becchi (Piemonte), una ventina di chilometri dal capoluogo di regione. È da lì che prende vita la storia di un uomo che cambiò l’esistenza a migliaia di giovani.
Tra i tanti giovani che avvicina vi sono quelli rinchiusi in carcere. Nel 1845 sorge a Torino un nuovo penitenziario chiamato “riformatorio dei ragazzi” che ospita fino a 300 giovani perlopiù arrestati per furto e vagabondaggio. Don Bosco li frequenta con costanza, fa loro catechismo, si lega a ognuno con la passione di un padre. Straordinario – e conosciuto – l’episodio della gita a Stupinigi. Il sacerdote chiede al direttore del carcere di poter premiare i ragazzi con un’uscita in campagna di un intero giorno. Nonostante il diniego, il futuro santo insiste, tanto da rivolgersi al ministro Rattazzi che alla fine acconsente e promette di far disporre un numero di guardie sufficienti per evitare i sicuri tentativi di fuga. «No», obietta don Bosco. «Si farà tutto senza gendarmi e se anche uno solo dei ragazzi fuggirà, pagherò io con il carcere». L’annuncio della gita manda in tripudio i piccoli prigionieri, ma prima della partenza don Bosco si raccomanda con loro: «Ho dato la mia parola che vi comporterete bene e che torneremo tutti senza che nessuno fuggirà. Ne va del mio onore. Posso fidarmi?». Dopo un breve confronto, uno dei giovani lo rassicura: «Ha la nostra parola. Torneremo tutti e ci comporteremo bene». Il giorno seguente partono per Stupinigi: lungo i sentieri della campagna i giovani corrono, saltano. Dopo la Messa, il pranzo su una grande distesa di verde e lì le gare, i giochi lungo il fiume Sangone. Visitano il parco e il castello. Merenda e al tramonto ritorno. Il direttore del carcere, contati i ragazzi, constata che ci son tutti. Le cronache raccontano che don Bosco ritorna a casa con il cuore stretto per averli liberati un giorno solo. Quando rincontra il sacerdote, il ministro Rattazzi chiede come mai «a noi queste cose non riescono e a lei sì». Don Bosco è netto nel giudizio: «Perché lo Stato comanda e punisce. Io invece voglio bene a quei ragazzi».
La vera libertà
«Ci sono decine di episodi simili narrati nella mostra – precisa Cestari –, nei quali la grandezza educativa del santo capovolge l’esistenza dei più umili, fino a irradiare la santità di cui è fatta». Non a caso, tra i suoi allievi prediletti vi è quel Domenico Savio, scomparso a soli 15 anni e più avanti proclamato santo. Don Bosco ne segue la crescita spirituale con particolare predilezione intravedendo in lui quell’amore profondo per il Signore che nutre egli stesso. Anzi, a volte deve frenarne l’impeto che lo porta a eccedere. Il prete scopre che Domenico, sentendo nelle letture liturgiche del tempo continui inviti alla penitenza, sceglie spesso di digiunare a pane e acqua e di dormire la notte con alcune pietre sotto le lenzuola per rendere il sonno più disturbato. Una forma di penitenza che è certamente segno di amore, ma di fronte alla quale don Bosco lo riprende e lo blocca con decisione: «Ti proibisco assolutamente qualunque penitenza. O meglio, te ne concedo una sola: l’obbedienza. È una penitenza che costa, piace al Signore e non rovina la salute. Obbedisci, e a te basta».
E da qui sono nate opere di straordinaria portata. La mostra offrirà anche uno spaccato di quanto il carisma di don Giovanni Bosco abbia inciso nella storia di quegli anni e continui a farlo oggi. Numeri sui laboratori, sulle case e su quello che saranno i salesiani nel mondo, sia come sacerdoti sia come laici, ma anche come beati e santi (uno spazio sarà dedicato in particolare a san Domenico Savio). Di tutto il vasto patrimonio che ci offre questa figura, è impossibile non ricordare il segno esteriore principale che lo contraddistingueva: l’allegria. «Noi facciamo consistere la santità nello stare allegri», amava ripetere. Per don Bosco l’allegria è la profonda soddisfazione che nasce dal sapersi nelle mani di Dio, e quindi in buone mani. Appartenere a Lui, è la vera libertà.