Mani Pulite, Travaglio non la racconta giusta. La vera storia è questa

A Servizio Pubblico il giornalista del Fatto ha raccontato Tangentopoli a suo modo. Cosa è stata Mani Pulite? Lettera a un ragazzo nato il 17 febbraio 1992.

Lettera a un ragazzo nato il 17 febbraio 1992. Caro amico, tu che sei oggi, venti anni fa, nel giorno in cui fu arrestato Mario Chiesa, l’amministratore socialista del milanese Pio Albergo Trivulzio, e si inaugurò la più devastante inchiesta giudiziaria, con le più devastanti ripercussioni politiche e civili della storia d’Italia unita, ecco, caro amico, tu sicuramente hai verso Bettino Craxi una disposizione d’animo migliore di quella che avessimo noi, che eravamo ventenni vent’anni fa. Noi avevamo bisogno del nostro Luigi Sedici da ghigliottinare, e lo trovammo in Craxi. Noi ballammo e cantammo felici sotto al suo patibolo. Pensavamo – ingenui: non avevamo capito nulla del nostro paese, nulla del mondo, nulla di quello che la storia ci dovrebbe insegnare – che sarebbe seguita un’età dell’oro.

Noi e i nostri padri non ne potevamo più di un regime che si autoalimentava da quasi mezzo secolo, in un clima di democrazia eternamente sospesa, giostrata dalle segreterie dei partiti in cui l’alternativa era allo stesso improponibile o semplicemente non proposta, cioè consociativa: il Partito comunista. Per non dire dei postfascisti (lasciami aprire una parentesi, amico mio – ne aprirò molte – ma che paura molto mal riposta, a vederli oggi i Gianfranco Fini, gli Ignazio La Russa, i Gianni Alemanno sono erbe di cui non si riesce a fare nemmeno un Fascio). E dunque o stavi con i partiti filo-occidentali, con le loro arroganze, le loro soperchierie, i loro ladrocinii, ma anche con il loro saldo ancoraggio al mondo libero, oppure stavi con i comunisti o con i fascisti, e dunque con i sostenitori delle idee assassine del Novecento, come bene le definì Robert Conquest. Fine del menù.

Questo è un lungo preambolo, lo so, giovane amico. Ma quando l’Unione Sovietica si sbriciolò, pochi compresero (e fra quei pochi Craxi e Francesco Cossiga) che si era anche sbriciolato un sottile equilibrio, e che dalla corda tesa sarebbero caduti in molti. Il giorno in cui nelle nostre vite si stagliò il profilo di Antonio Di Pietro, l’uomo dalle scarpe grosse e dal cervello fino (sembrava Tex Willer: «Ma in punta di diritto, lei quei soldi li ha presi o non li ha presi?», goduria pura, lo sputazzo all’azzeccagarbugli), ci parve una nuova liberazione. Credevamo che Achille Occhetto e i suoi giovani eredi, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, fossero a dir poco annientati dalle mattonate del muro. E credevamo fosse giunto il tempo in cui il Psi e la Dc rendessero conto dell’uso disinvolto o illegale del mandato ricevuto. E su quella implacabile resa dei conti avremmo edificato una nuova Italia. Ci eravamo sbagliati di brutto. Quando alla corsa per il sindaco di Napoli si sfidarono il comunista Antonio Bassolino e la supernipote Alessandra Mussolini, o a Roma il postfascista Fini e Francesco Rutelli sostenuto dal neonato Pds, fu chiaro quello che Carlo De Benedetti ha spiegato soltanto oggi. In un bel libro di Marco Damilano appena uscito per Laterza (Eutanasia di un potere, 328 pagine, 18 euro) il titolare della tessera numero 2 del Partito democratico (diretto discendente del Pci) ha detto: «In quell’operazione il Pci è stato sicuramente protetto, perché sia Borrelli che D’Ambrosio (il capo e il suo vice alla procura di Milano, ndr) volevano distruggere un sistema di potere, non tutti i partiti». Ah, ecco.

Non c’era bisogno di De Benedetti. Noi lo sapevamo già. Noi – su Tempi e sul Foglio di Giuliano Ferrara, per esempio – lo avevamo scritto in lungo e in largo e talvolta con una tale foga che abbiamo nutrito le tesi comode e sbrigative di chi sosteneva difendessimo i ladri e gli interessi di Silvio Berlusconi. In realtà Berlusconi è stato la conseguenza e la reazione: se era vero, come noi pensavamo, e come venti anni dopo dice De Benedetti, che un sistema era stato abbattuto con intenzioni esorbitanti quelle puramente giudiziarie, e che la competizione democratica restava nelle mani di postcomunisti e postfascisti (segno in schedina: uno fisso), bè, allora c’era bisogno di qualcuno. Ecco perché fu necessario Berlusconi, con tutti i limiti e le contraddizioni. E perché ora, forse, non è più necessario.

È stato un lungo preambolo ma indispensabile per capire che cosa resta oggi di Mani pulite e perché di mani pulite se ne vedono in giro ancora poche. E infatti colpisce, caro e giovane amico, il dolore di Gherardo Colombo – un pubblico ministero apertamente progressista che affiancò Di Pietro – nel celebrare questo ventesimo anniversario. L’eredità civile, ha detto, è quella che è. Oggi si ruba come prima e più di prima, ha proseguito. La nostra grande inchiesta, la nostra sventagliata di mitra, ha concluso, è servita a poco o niente. Ecco lì il drammatico errore. Ecco dov’è. È nell’aspettativa civile. Nel credere che un’inchiesta giudiziaria, un processo in tribunale, persino una condanna, servano non soltanto per combattere un sistema di potere – e quindi costruire un sistema nuovo – ma anche per generare una coscienza nuova, un nuovo uomo. Che disastro incalcolabile! Che perfetta follia! Puro Pol Pot! Cioè, se De Benedetti e Colombo dicono il vero, e non stiamo parlando di due outsider, ma di purissima classe dirigente del paese, Mani pulite non fu soltanto l’ovvia azione della magistratura contro i reati e chi li commise, ma la per niente ovvia azione smantellatrice di un sistema politico e l’ancora meno ovvia azione purificatrice di una lercia coscienza pubblica. Ecco che cosa volevamo dire, già tanti anni fa, quando sostenevamo che la magistratura aveva invaso un terreno non suo. Non era soltanto l’idea di supplire alla politica, e precisamente nel potere legislativo, ma quella di proporsi come élite illuminata, l’unica capace di indicare la retta via. I sommi sacerdoti.

Quello che Craxi disse in Parlamento nel luglio del 1992 – ed è una data importante: lì il Terrore autentico non si è aperto, lo spargimento di sangue non è cominciato, sarà il 1993 l’anno della distruzione – era dunque definitivo. Se ci fossero stati buon senso, un minimo di caratura morale, capacità di tenere la testa alta, forse il nostro paese avrebbe avuto un futuro meno deprimente. Craxi disse: «I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Non so, giovane amico, se tu abbia letto questo discorso decine di volte o ti suoni nuovo. In ogni caso va riproposto e rivisto sempre, perché non è il discorso del “così fan tutti”. Chi ti racconta che Craxi sosteneva l’equazione “colpevoli tutti uguale tutti innocenti”, o non ha ancora capito o ancora finge di non capire. Craxi diceva: se pensate di risolvere la questione in un’aula di tribunale, non la risolverete mai. Se credete di lavarvi le mani e la coscienza consegnando il Cinghialone alla giustizia, non vi laverete né l’una né l’altra. Se non fate i conti con un sistema che ci coinvolge tutti, se non lo fate sotto l’aspetto puramente politico, abbandonerete il terreno ad altri, e non ne verremo fuori mai. Passeranno i mesi, gli anni, i decenni, ma prima o dopo i fatti si incaricheranno di dichiararvi spergiuri, vi riprenderanno con le vostre mani pulite nel sacco. Con tutte le conseguenze del caso.

Ecco, venti anni dopo siamo punto e a capo. Venti anni dopo il finanziamento ai partiti, l’uso che essi ne fanno, le storture, le irregolarità e le illegalità sono il tema dominante di una politica se possibile più sputtanata di prima. Aver fatto finta che quella fosse una questione puramente criminale, che c’erano i disonesti e gli onesti, che c’erano quelli che avevano barato e quelli che avevano subìto, è stato un tale infingimento, una tale fuga codarda, una tale volgare ipocrisia, che non potevano non trascinarci in una lunga, misera, bugiarda e fallimentare Seconda Repubblica (e guarda caso, è una Seconda Repubblica che muore degli stessi mali nella Prima e che, come la Prima, consegna l’anima nelle mani dei tenici). Se oggi siamo ancora lì a discutere di responsabilità civile dei giudici con i toni dei curvaioli, appesi a barricate che ci impediranno un incontro alla bandiera bianca nella terra di nessuno (ecco un’altra parentesi: c’è chi pretende di chiamare in giudizio i magistrati che sbagliano per dolo o platealmente, quando sarebbe una facoltà unica al mondo; e dall’altra parte chi pretende di conservare lo status quo, per cui ci vogliono nove gradi di giudizio perché il giudice che sbaglia per dolo o platealmente ne risponda allo Stato, col denaro o con i ridimensionamenti di carriera, e infatti ne hanno risposto in quattro dal 1987, una fantastica presa per i fondelli), bene, caro amico, spero di averti spiegato a chi dobbiamo il meraviglioso panorama. Sono trascorsi venti anni – noi eravamo ragazzi, tu eri un meraviglioso niente – e tutto era come oggi. Né più né meno.

Ora io spero, caro ragazzo, che quando toccherà a te, e ti toccherà presto, non commetterai il nostro stesso errore, quello dei nostri padri, e dei padri dei nostri padri. Spero che non appenderai a un cappio il tuo desiderio di giustizia, ma lo esplorerai nel profondo e lo amministrerai con la saggezza di chi si è liberato dal rancore. E soprattutto dall’illusione di salvare il mondo.

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