Ma chi ce li ha fatti perdere? Film da recuperare

Da The Way Back a Il maledetto United. Ecco tutte le pellicole imperdibili su cui i distributori italiani non hanno scommesso. Film con trame avvincenti, attori e registi di livello, parcheggiati in qualche magazzino. Per lasciare spazio alla noia

Una ragazza coronata di spine cammina nel deserto. Cammina con le piaghe ai piedi che non le danno tregua. I compagni che la prendono sulle spalle e lei che con un filo di voce prova a scandire «Irena Zielinska», il suo vero nome, quello che i comunisti non le hanno potuto far dimenticare, il nome di una donna libera.
È questa la scena, anche metaforicamente, più forte dell’ultimo grande film di Peter Weir, The Way Back, la storia vera e incredibile di un gruppo di evasi da un gulag siberiano che, dopo un viaggio durato anni, riesce a rifugiarsi in India poco prima della fine della Seconda guerra mondiale. Weir, che ha sempre amato raccontare la libertà nei suoi film, da L’attimo fuggente a The Truman Show fino a Master & Commander, realizza un nuovo grande film su quello che i suoi personaggi definiscono il bene più prezioso dell’uomo e contro ogni forma di totalitarismo. Lo dirige con un occhio allo spettacolo: un grande cast tra cui spiccano Ed Harris e Colin Farrell, una cura formale ineccepibile, fatta di grandi scenari e di suspense vera. In quanti degli evasi riusciranno ad arrivare al confine? E soprattutto, quale confine?

L’incipit è da pelle d’oca e richiama un altro grande capolavoro della libertà, Katyn: uno stanzino spoglio, un sovietico che interroga un povero cristo. Viene fatta entrare la moglie, costretta con la forza a testimoniare contro il marito. È la storia di Janusz (Jim Sturgess), un giovane polacco ritenuto spia e spedito in Siberia. Accanto a lui nel gulag, dove a mietere vittime ogni giorno più che le pallottole dei sovietici sono i 40 gradi sotto zero, un’umanità varia e sofferente. C’è un attore internato per aver interpretato il ruolo di un aristocratico, c’è un egittologo di fama dell’università di Leningrado, accusato di spionaggio; ci sono artisti, comici, preti. E anche delinquenti che, come nel caso del personaggio interpretato da Farrell, hanno tatuati sul corpo le immagini di Lenin e Stalin «perché erano dei duri, toglievano ai ricchi per dare ai poveri», salvo poi dover amaramente ricredersi. Ci sono russi, polacchi, ebrei, lettoni e lituani. C’è anche un americano, mister Smith (Ed Harris), la faccia di pietra, segnata da tanti rimorsi e da un potere che gli ha tolto tutto. Questo nella prima mezz’ora del film, perché nelle restanti due ore, Weir racconta l’odissea di un pugno di uomini a cui poi si aggiungerà una ragazza (Saoirse Ronan), che prendono e scappano.

Meglio morire da uomini liberi che vivere da schiavi. Attraversano la steppa che mieterà vittime, giungeranno quasi a mangiarsi tra di loro, conservando nei momenti peggiori – per miracolo, ma anche per le preghiere del prete che li accompagna – quel briciolo di umanità che il comunismo ha cercato di togliere loro. Arrivano, stremati, a un confine. Il primo di tanti, perché il comunismo pare esteso fino ai confini del mondo. Eppure non demordono, un occhio al compagno sofferente che perde terreno, il cuore a casa propria e alla moglie che aspetta. Un capolavoro che in tanti punti assomiglia al film di Wajda, ma più impegnato a raccontare il bene che si percepisce tra questo gruppo di uomini in marcia in un Calvario collettivo, che non a denunciare tutto il male che il comunismo ha fatto. Basta solo un’immagine per questo: quella di un monastero mongolo totalmente distrutto o i racconti dolorosi del sacerdote.

Un road movie commovente che in Italia non si vedrà: ad oggi il film non è stato acquistato da nessun distributore. Eppure il film è circolato in tanti festival ed è uscito in tanti paesi: Stati Uniti, Germania, Australia, Francia, Russia, Spagna, Olanda, Polonia, Belgio, Turchia, Malaysia e Kuwait. Praticamente dappertutto. Solo da noi non riscuote attenzione. E non è il primo grande o buon film che in Italia non arriva o, se viene distribuito, esce in pochissime copie o solo per il mercato Home Video. I ritardi distributivi di Katyn e The Road la dicono lunga, ma ci sono altri film che, snobbati dalle grandi major, andrebbero riconsiderati.
C’è la storia del monaco russo – una storia alla Tarkovskij – visivamente straordinaria e profonda da un punto di vista umano: la storia de L’isola di Pavel Lungin, film di chiusura della Mostra del Cinema di Venezia 2006 e poi uscito solo in dvd. O il biopic avvincente e politicamente scorretto su Brian Clough, leggendario allenatore inglese. Una grande storia di calcio e di uomini, uno dei pochi film davvero riusciti sul mondo del pallone: Il maledetto United, scritto dal premio Oscar Peter Morgan e diretto da un altro premio Oscar, Tom Hooper (Il discorso del re), pure lui ha dovuto accontentarsi solo di un’uscita in videoteca.

Considerazioni sbagliate
E a proposito di premi Oscar, il vincitore dell’Oscar 2009 come miglior film straniero, il giapponese Departures, è uscito da noi più di un anno dopo e pure in poche sale. Eppure racconta, con sensibilità e discrezione, una vicenda toccante. La storia di un giovane che va a bottega da un tanatoesteta e impara, dopo le prime ovvie perplessità, che l’amore tocca, concretamente, anche i defunti. O il caso di The Blind Side, che l’anno scorso ha fatto vincere a Sandra Bullock l’Oscar come miglior interprete femminile. Una vicenda classica di accoglienza dell’altro (lei è bianca e ricca e decide di adottare un ragazzo nero che poi diventerà una stella del football). Un’altra storia vera e avvincente che il pubblico italiano dovrà andare a cercare sugli scaffali del Blockbuster di turno. Altri Oscar mai arrivati nelle nostre sale: l’ultimo film che Antoine Fuqua, il regista che fece vincere un Oscar a Denzel Washington con Training Day, ha diretto nel 2009, un notevole, durissimo poliziesco, Brooklyn’s Finest.

Un gran cast (Ethan Hawke, Richard Gere, in uno dei suoi ruoli migliori) e una storia classica di delitto e castigo. Mai uscito al cinema. È il destino di tanti film parcheggiati in qualche magazzino o considerati di scarso impatto per il pubblico italiano o semplicemente non considerati per pigrizia. Solo negli ultimi anni sono usciti male film pregevoli come 12, il remake russo de La parola ai giurati; Bella, il piccolo film sulla vicenda di una ragazza che decide di non abortire; il vincitore del Sundance, Frozen River; i duri Il profeta (gran successo in Francia) e Animal Kingdom; la divertente commedia adolescenziale Scott Pilgrim vs The World; uno dei documentari più riusciti di sempre, Senna, sul campione di Formula 1.

Poca pubblicità, spesso neanche lo straccio di un trailer. In cambio di che? In cambio di una roba come Dreamland – La terra dei sogni, film di Sebastiano Sandro Ravagnani con Franco Columbu e Ivano De Cristofaro i cui poster giganteschi occupavano fino a poche settimane fa una città come Milano e che a metà luglio ha avuto il suo battesimo in sala. Tanto rumore per nulla: nel primo week-end il film ha guadagnato 1.793 euro. Forse valeva la pena scommettere su altri.

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