Ma che pace cantano quelli di “Imagine”?

La canzone di Lennon è diventato l'inno dei pacifisti. Ma che mondo si immagina nella canzone? Utopie e sogni pericolosi

Marcia di Pasqua, Berlino, Germania, 16 aprile 2022

Caro direttore, Imagine di John Lennon è senza dubbio la canzone più cantata in questo periodo di guerra in atto e di pace invocata e di festa del lavoro, soprattutto di quello dei cantautori. Effettivamente, tale musica è molto bella. Mi chiedo, però, se quelli che cantano le parole di quella canzone sanno che cosa stanno dicendo con il loro canto. Il testo, infatti, mi sembra intriso di un sentimentalismo senza ragione.

Vediamo alcune di queste parole.

Lennon sogna (altra parola da eliminare quando si parla di educazione e di realtà) di vivere in un mondo in cui non ci sia alcun paradiso (“heaven”), cioè un mondo in cui non vi sia alcun ideale da raggiungere, in cui non vi sia alcun destino buono per l’uomo. Un mondo insignificante. E, naturalmente, sogna un mondo in cui non vi sia nessun inferno (“hell”), nessuna possibilità di male, come se non ci fosse quella ferita misteriosa che Santa Madre Chiesa ha codificato come “peccato originale”, che è all’origine di ogni male da che esistono l’uomo e la donna. Fuori dalla realtà è ipotizzare una situazione in cui il male, con l’inferno che esso comporta, non esista. Se non esistesse il problema umano sarebbe già risolto. Ma esiste, come lo stesso povero Lennon ha tragicamente sperimentato, gettando nel dolore tutti coloro che amano le sue belle musiche.

Ma Lennon sogna anche che si possa vivere solo per l’oggi (“living for today”). Vivere, cioè, senza una prospettiva, senza il desiderio di una costruzione, di un futuro per sé e per i propri figli e nipoti. Vivere alla giornata sta all’origine del fenomeno della denatalità, che tutti deprecano, ma che nessuno vuole affrontare dalle origini.

Ma non basta: Imagine vorrebbe che non ci fossero patrie (“countries”), cioè luoghi in cui ciascuno può crescere ed essere educato; una dimora che dia consolazione e ristoro ai propri dolori ed ai propri fallimenti. Senza patria significa senza padre: cioè senza nessuna generazione. Cantano queste parole quegli stessi che poi si lamentano se la pandemia ha prodotto tanta solitudine e tanta asocialità. Senza una patria nessuno di noi esisterebbe.

Imagine vorrebbe anche che non ci fosse nulla per cui uccidere (l’unica parola sensata) e per cui morire (“nothing to kill or die for”). Avrebbero sbagliato, dunque, tutti i martiri cristiani che hanno preferito morire piuttosto che rinnegare la verità e la presenza di Cristo; ed avrebbero anche sbagliato tutti quei soldati inglesi morti per assicurare la libertà ad una patria dove ha potuto nascere ed esprimersi anche John Lennon.

E poi la dose viene rincarata quando la canzone sogna anche che non vi sia alcuna religione (“and no religion too”). Sento che tanti cattolici e cristiani in genere cantano con entusiasmo anche queste parole: ma sanno quello che cantano? Sanno che tale canzone rinnega la presenza di ogni religione e fa fuori in un sol colpo di versetto quel “senso religioso” che pervade l’esistenza di ogni essere umano, come ci ha insegnato il servo di Dio don Luigi Giussani in un suo favoloso libro dedicato proprio a questo tema? Perché anche chi crede in Cristo deve accodarsi senza senno a parole che anche l’Anticristo sottoscriverebbe? Persa la fede o la ragione? O entrambe?

Troppo facile, poi, per uno straricco scrivere che non vi devono essere più proprietà (“possessions”) e che non vi devono più essere cupidigia o brama (“greed or hunger”).

Insomma, Imagine vorrebbe una umanità appiattita sul nulla e su un chimerico sogno di unità. Ma non è un inno alla pace dell’umanità; è un utopistico inno alla massonica concezione di un vago principio di unità senza carne (“the world will be as one”). Mi viene tristezza nel vedere che tanti politici cantano una canzone che, nella sostanza, li vorrebbe far fuori (ma sta diventando una loro patologia, visto come hanno applaudito  Napolitano ed Mattarella che sono andati in Parlamento per frustarli). Mi viene da ridere, poi, quando la canzone è cantata dai sindacalisti, che per mestiere sono “divisivi” e cantano parole che li vorrebbero far scomparire.

Ma fra tristezze e risate, la questione è seria. Avendo rifiutato l’invito di Cristo a convertirsi, la cultura di oggi si attesa sui sogni e sulle utopie. Diventa orribilmente sentimentale per non guardare in faccia alla realtà, la quale è molto dura, ma proprio Cristo la può rendere “lieve”.

Il grande abate generale dei Cistercensi, Mauro Lepori, ha detto in questi giorni a qualche decina di migliaia di fedeli che proprio Cristo è l’unico “necessario”. Basta allora con i “sogni” che non rispettano la realtà, ma riconvertiamoci tutti, compresi cantautori, politici e sindacalisti, a seguire la strada che l’incarnazione reale di Dio ci ha indicato. E diamo ai nostri canti parole serie.

Peppino Zola

Foto Ansa

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