«Lo ius scholae non è garanzia di integrazione»

«La scuola di oggi non favorisce la condivisione di una identità culturale legata alla cittadinanza». Intervista a Giuseppe Valditara

Foto di Taylor Wilcox per Unsplash

«Il 10,8 per cento dei giovani stranieri tra i 18 e i 24 anni è stato denunciato per diverse ipotesi di reato legati in particolar modo alla devianza da strada. Stesso discorso riguarda quasi il 5 per cento di quelli di età compresa tra i 14 e i 17 anni, a differenza dei casi di minori italiani nella medesima fascia anagrafica che si attestano attorno allo 0,5 per cento, precisamente allo 0,58 per cento. Sono dati preoccupanti che contabilizzano, fra l’altro, solo quei reati per cui è stato individuato un responsabile».

Lo ha detto a Tempi uno che di queste cose se ne intende, non foss’altro che per l’osservatorio privilegiato di studioso dell’antico mondo romano, universo che spesso dimentichiamo o addirittura ignoriamo e che sulla concessione della cittadinanza faceva sul serio.

Giuseppe Valditara, già parlamentare con importanti incarichi ai tempi del Pdl e di Alleanza Nazionale, Capodipartimento al Miur, docente universitario di Diritto pubblico e privato romano a Torino, entra subito in medias res, manco a dirlo, nella breve ma significativa conversazione all’indomani dell’asserita nuova emergenza messa sul tavolo dal solito Pd del solito Enrico Letta: la concessione della cittadinanza italiana ai giovani stranieri, figli di immigrati non cittadini, che abbiano compiuto un ciclo di studi di cinque anni. Insomma, riandando al latino, parliamo dello ius scholae, il tema politico di queste ore. Tra l’altro
«sono dati Istat quelli che ho citato, si riferiscono al 2020, prima della esplosione del fenomeno delle cosiddette baby gang».

Professore, se abbiamo ben capito dall’intervento che ieri ha pubblicato sul quotidiano Libero, il cuore del problema è l’incerta e mal coltivata identità nazionale a rappresentare il primo ostacolo a questa ipotesi di concessione della cittadinanza. È così?

Assolutamente. La scuola di oggi non forma adeguatamente alla conoscenza dei valori costituzionali, della nostra storia e soprattutto non favorisce la condivisione di una identità culturale legata alla cittadinanza. Ecco perché diffido di automatismi nella acquisizione della cittadinanza.

Eppure a leggerla così, in astratto, sembrerebbe addirittura una cosa bella e nobile.

Guardi, le porto l’esempio della Francia. Esistono numerosi studi e analisi, per esempio quelle fatte dall’Institut Montaigne, che dovrebbero metterci in allarme. Hanno chiesto a giovani francesi di seconda generazione di età fra i 15 e i 25 anni, in questo caso appartenenti alla comunità musulmana, cosa pensassero, ad esempio, della parità uomo-donna, della libertà di espressione, dei valori costituzionali della repubblica e della sharia.

Risultato?

Pessimo, prevalgono le identità coltivate dalla famiglia di origine, per il 50 per cento degli intervistati è emerso che la legge coranica è più importante della Costituzione e delle leggi francesi.

Si spiega benissimo. Ma c’è chi dice: ma questi giovani vanno allo stadio, tifano Inter, Juve, Napoli, Milan…

Non significa niente, solo un ingenuo può pensare che questo sia un indicatore di integrazione. Gli indicatori di integrazione si misurano sulla condotta e quindi sulla assenza di devianza, sulla condivisione dei valori fondanti, sul rispetto della identità del Paese ospitante, sulla conoscenza della storia di una nazione. La cittadinanza va immaginata a punti, cioè con la previa verifica di questi requisiti fondamentali.

Insomma, la cittadinanza va data a chi la meriti?

Certamente, mi pare un concetto di buonsenso, anche se – come si dice – il buonsenso sembra non abitare troppo dalle nostre parti. Cinque anni di scuola non garantiscono nulla, anzi, danno l’idea del tutto e subito, dei diritti senza i doveri, della acquisizione di una cittadinanza senza alcuno sforzo.

Secondo lei la politica attuale come dipanerà questa matassa?

Non so fare pronostici. Quel che so è che il Governo si gioca molto se lascia che si crei una spaccatura così lacerante fra le forze che lo sostengono. Io suggerirei di affrontare i problemi veri dell’Italia di oggi che sono innanzitutto la perdita del potere di acquisto di stipendi e pensioni, il tema dell’energia. La sinistra in questa operazione investe molto perché i numeri che ne deriverebbero in futuro sul piano elettorale sposterebbero gli equilibri. Parliamo di centinaia di migliaia di voti che in futuro potrebbero fare la differenza.

Lei che è un esperto del diritto romano, considera possibile immaginare un parallelo tra quell’antica civiltà e noi?

Roma metteva al centro di tutto il proprio interesse nazionale: le politiche della cittadinanza e della immigrazione seguivano questa logica. Diventare civis romanus era molto ambito. Roma non fu mai razzista, nella repubblica si rispettava la libertà religiosa. Atene aveva invece una concezione “razzista” della cittadinanza. Ma Roma pretendeva in cambio l’adesione alle proprie regole, violate le quali la cittadinanza si poteva perdere e non consentiva durante la Repubblica la doppia cittadinanza: o stavi di qua o stavi di là.
Persino l’imperatore Claudio che pure era molto aperto tolse la cittadinanza ad un uomo ricco e ben integrato di origine greca perché non conosceva bene la lingua latina.

E qui torniamo all’identità.

Esatto, Roma aveva un’identità forte, assimilava il meglio, e lo rielaborava avendo una concezione chiara di sé. Senza identità non si può assimilare e quindi non si può integrare.

Ecco, tutto questo mentre le agenzie continuano a battere le parole dell’inquilino del Quirinale in visita ufficiale in Mozambico: «Non esistono più sfere di influenza, il mondo è un tutt’uno, senza confini e senza barriere.

Pia illusione…

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