L’islam ci costringe a interrogarci sulla nostra identità europea

Anche al Forum Ambrosetti di Cernobbio pare se ne siano accorti. Un’identità si definisce sempre sulla base di un’alterità

È opinione condivisa dalla stragrande maggioranza degli esperti di indagini demoscopiche che la fiducia e il gradimento nei confronti dell’Unione Europea, da parte dei cittadini dei paesi che ne fanno parte, abbia ormai raggiunto il livello più basso mai rilevato da quando il 18 aprile del 1951 fu firmato il trattato di Parigi, con il quale Germania, Francia, Italia e Benelux sancirono la nascita della Ceca, la Comunità del Carbone e dell’Acciaio, primo embrione della costruzione di una compagine politica volta ad unificare il Vecchio Continente.

Eppure, paradossalmente, mai come oggi è possibile rilevare, a livello di senso comune, un’istintivo sentimento di appartenenza ad una comune identità europea, peraltro diffuso in tutti i segmenti della popolazione, tanto sociali quanto generazionali.

La prova di quanto affermato viene offerta, empiricamente, dalle reazioni riscontrabili, sui social network come nei discorsi da bar, all’indomani di ciascuno dei tragici attentati di matrice islamica che si sono susseguiti in Europa dall’assalto alla sede di Charlie Hebdo a Parigi il 7 gennaio 2015, fino all’ultima sanguinosa strage consumatasi al mercato della Rambla di Barcellona, lo scorso 17 agosto.

Sebbene, fortunatamente, l’Italia non abbia subito sul suo territorio alcun attentato terroristico da parte dei fondamentalisti islamici, è innegabile che l’opinione pubblica abbia in ogni caso percepito questi tragici avvenimenti come un attacco rivolto anche contro il nostro paese e, in generale, contro tutti gli europei, contro il nostro stile di vita e il nostro sistema di valori. Analoghe reazioni emotive sono facilmente riscontrabili in tutta Europa.

Potremmo affermare che stanno fornendo un maggior contributo all’emergere ed al radicarsi di una identità europea tra la gente comune le tragiche morti provocate dal terrorismo islamico, di decenni di programmi Erasmus, trattati, progetti e fondi europei, show televisivi tipo “Giochi senza frontiere”…

Nessuna dietrologia complottista alla base di questa affermazione. Solo una semplice constatazione, magari amara, che può però fornire qualche spunto di riflessione.

Il tema dell’identità, sebbene spesso trascurato, snobbato, quando non dileggiato, è tutt’altro che marginale quando si ambisce a costruire una compagine politica. Anzi è addirittura cruciale. Strategico.

Sembrano essersene accorti anche al Forum Ambrosetti di Cernobbio, dove il 2 settembre, proprio in relazione alla necessità di un’”identità europea” si è tenuto un dibattito sui destini e le radici culturali del Vecchio Continente, che ha messo un po’ da parte le solite querelle sull’architettura istituzionale dell’Ue, animato dagli interventi dell’ex premier Mario Monti, del saggista scozzese Niall Ferguson e del leader populista olandese Geert Wilders.

Al di là delle opinioni espresse dai tre protagonisti, più o meno ancorate alle personali posizioni politiche, ciò che ha colpito anche i commentatori è stata l’attenzione riservata nel corso del dibattito alla dimensione religiosa del problema.

I tre relatori di Cernobbio non hanno condotto la discussione in proposito fino in fondo, ma il tema è proprio questo. Un’identità si definisce sempre sulla base di un’alterità intesa come strutturalmente opposta, o addirittura antagonista. E, storicamente parlando, tale funzione rispetto all’”europeità” è stata sempre svolta dall’islam, a prescindere dalla conflittualità o meno dei rapporti contingenti.

Non è un caso che si parli per la prima volta di “europei” nel racconto della battaglia di Poitiers, in cui Carlo Martello sbarrò agli arabi la strada verso la conquista del continente, scritto dal cronista spagnolo Isidoro Pacensis nell’VIII secolo. L’esercito del condottiero franco era composto da popoli diversi e Isidoro li indicò come europeenses, che erano per l’appunto coloro che sul campo di battaglia si trovavano di fronte agli Arabi musulmani.

Da allora, e per quasi tredici secoli, lungo il Mediterraneo è corsa una frontiera – in certe fasi idealmente ostruita da mura (Pirenne), in altre costellata da ponti (Braudel) – che separava due civiltà alternative: la cristianità (ossia l’Europa, per dirla alla Novalis) e l’islam.
Come meravigliarsi, dunque, se oggi un simile retaggio ancestrale ritorna prepotente di fronte ad episodi di notevole violenza, determinando il sopraggiungere di un sentimento identitario istintivo, ma non concettualizzato, perché vissuto nella dimensione amico-nemico e proprio per questo più autentico e profondo?

Giusto o sbagliato che sia, si tratta di un “fatto” di cui tener conto: perché potrebbe rilanciare un processo di integrazione europea su nuove basi e perché apre un’altra fondamentale questione: la definizione dei contorni e dei dettagli di un’identità europea che intende il mondo islamico come “lo specchio” con il quale confrontarsi in opposizione. E da questo punto di vista le strade percorribili sono solo due: o lavorare al recupero delle radici cristiane, greche e romane dell’identità europea. Oppure rassegnarsi agli isterismi paranoici delle Oriana Fallaci, degli Alain Finkielkraut, dei Bernard-Henri Lévy, che nell’islam riescono a vedere soltanto una mortale minaccia ad un presunto nostro modello di civiltà laicista e consumista, felicemente (ma in realtà disperatamente) adagiato su di un’individualistica licenziosità dei costumi, dei bisogni e dei diritti.

@alesansoni

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