L’imperatrice Merkel e le sue (piccole) bestie rosa

Al confronto con l’invincibile cancelliera l’insolentita May, le due leader di AfD Petry e Weidel, il premier scozzese Sturgeon e il sindaco di Barcellona Colau sono quasi niente

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Da quando Angela Merkel ha superato prima i 10 e poi i 12 anni ininterrotti al potere come cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, è diventata del tutto oziosa la compiaciuta inchiesta che periodicamente quotidiani e settimanali conducono sul potere al femminile in Europa, omaggio politicamente corretto alle ragioni dell’emancipazione della donna. Oziosa e superflua perché Angela Merkel troneggia da tempo su uomini e donne, e il 19 giugno scorso ha battuto il record della donna più a lungo ininterrottamente al potere nel mondo nel secondo dopoguerra (in una repubblica con più di 1 milione di abitanti). Ha superato sia Indira Gandhi sia Margaret Thatcher, e se, come suggeriscono i sondaggi, vincerà le elezioni del prossimo 24 settembre, potrà ambire a restare in carica fino al 2021 per un quarto mandato di fila.

Angela si è mangiata tre candidati alla cancelleria socialdemocratici (il primo dei quali, nel 2005, si chiamava Gerhard Schröder) e si appresta a mangiare il quarto, l’ex presidente del Parlamento europeo Martin Schulz; e ha visto alternarsi alla Casa Bianca tre presidenti americani. Metterla nello stesso mazzo con Doris Leuthard, presidente della Confederazione Elvetica, o Ana Brnabić, primo ministro della Serbia, o Erna Solberg, primo ministro norvegese, solo perché si tratta di donne non ha alcun senso. È evidente che l’unica donna capo di governo che può salire sul ring con lei è Theresa May, l’ex ministro degli Interni conservatore britannico che ha preso il posto di David Cameron, l’apprendista stregone che ha convocato il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea convinto che avrebbe vinto il “Remain” e invece si è ritrovato col risultato opposto.

Con la premier britannica, oltre al fatto di governare un grande paese europeo, di essere affiliata al partito storicamente alternativo a quello socialdemocratico e di essere donna, la Merkel ha in comune anche il dettaglio di essere figlia di un uomo di Chiesa. Nel suo caso si trattava del teologo luterano Horst Kasner, che nel 1954 emigrò dalla Germania Ovest alla Germania Est portandosi dietro Angela neonata su richiesta del vescovo evangelico di Amburgo; invece Theresa è figlia di Hubert Brasier, pastore anglo-cattolico morto prematuramente in un incidente stradale nel 1981.

A differenza della Merkel, che come un Brunello o un Montepulciano si irrobustisce col passare degli anni, Theresa May sembra svaporarsi come un Lambrusco lasciato aperto. Il mediocre risultato alle elezioni politiche anticipate da lei convocate nel giugno scorso, che è costato parecchi seggi al suo partito e l’ha costretta a un governo di coalizione con gli unionisti nordirlandesi, ha moltiplicato il numero dei suoi nemici. L’unica cosa nella quale finora Theresa May può rivendicare una affinità con Margaret Thatcher, l’unica altra donna primo ministro britannico, è nella capacità di attirare dissenso, ostilità e insolenze. Il 61 per cento dei britannici, secondo un recente sondaggio, pensa che stia gestendo male i negoziati per la separazione del Regno Unito dall’Unione Europea. Agli ovvi attacchi a volto scoperto di laburisti e liberaldemocratici, che rappresentano le ragioni dell’opposizione parlamentare, si aggiunge l’aria di cospirazione che si respira nel partito conservatore dopo la vittoria di Pirro alle elezioni del 26 giugno e il rimpasto che ha fatto fuori quattro ministri.

Piano con l’arroganza
La May è regolarmente maltrattata a Bruxelles, dove viene fatta uscire dai consigli dei ministri quando si parla di Brexit, il presidente Juncker si diverte a fare il signor No di fronte a ogni sua proposta e l’incaricato ufficiale di Bruxelles per il negoziato della Brexit Michel Barnier la accusa di doppigiochi e perdite di tempo, e a Berlino, dove Angela Merkel le dà della stupida senza farsi tanti problemi. Era intriso di pesante ironia verso di lei l’intervento del cancelliere al parlamento tedesco nell’aprile scorso: «I paesi con status di paese terzo (quelli che non fanno parte dell’Unione e non sono candidati all’ingresso, ndr), che è ciò che la Gran Bretagna diventerà, non possono avere e non avranno gli stessi diritti dei paesi membri, o addirittura di più. Voi direte che questo è lapalissiano, ma mi tocca chiarirlo, perché ho l’impressione che in Gran Bretagna si facciano ancora delle illusioni riguardo a ciò, e questa è una perdita di tempo».

Ma Angela Merkel, l’imperatrice d’Europa, fa male a mostrare tanta arroganza e a sentirsi tanto sicura. Perché la May e altre piccole donne d’Europa politicamente rilevanti potrebbero crearle problemi che adesso si intravedono appena. Piccole donne perché al confronto con l’imperatrice cosa sono la leader e la candidata alla cancelleria del partito di estrema destra AfD, Alternativa per la Germania, Frauke Petry e Alice Weidel? Il primo ministro di Scozia Nicola Sturgeon? Il sindaco di Barcellona Ada Colau? Al confronto non sono quasi niente, eppure il combinato disposto dei loro programmi, delle loro mosse tattiche e dei consensi che sono in grado di raccogliere potrebbero creare molti grattacapi a Frau Merkel, fino a mettere in discussione la coesione del suo impero.

Una Brexit come si deve
La prima spina nella corona è la Brexit: la May può senz’altro avere tutta l’aria di un pugile alle corde, ma ha ancora in serbo un paio di jab in grado di togliere il fiato. Dopo aver snobbato le proposte britanniche sui diritti di cittadinanza che Londra continuerebbe a riconoscere ai 3 milioni di cittadini di paesi Ue residenti nel Regno Unito, ora i dirigenti europei guardano con sospetto la recente offerta britannica di partecipare al Fondo europeo per la difesa che dovrebbe entrare a regime nel 2019 con una disponibilità di 5,5 miliardi di euro. Il Fondo mira a coordinare e integrare gli investimenti nazionali in ricerca per la difesa e nell’acquisizione di tecnologia ed equipaggiamento militare. È evidente che Londra avanza questa offerta per ammorbidire Bruxelles sugli argomenti che le stanno più a cuore nel negoziato della Brexit, primo fra tutti l’accesso al mercato unico a condizioni analoghe o identiche a quelle di quando era membro dell’Unione a tutti gli effetti. In marzo Guy Verhofstadt, ex premier belga e coordinatore del Parlamento europeo per la Brexit, aveva accusato di “ricatto” Theresa May per avere ella scritto nella lettera con cui informava il Consiglio europeo della decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione che la futura cooperazione anglo-europea sui temi della sicurezza sarebbe dipesa dalla buona riuscita di un accordo sugli scambi commerciali.

In realtà le cose andrebbero viste in termini di realismo: la diffusa volontà di punire Londra per essere uscita dall’Unione Europea è una politica autolesionista proprio da un punto di vista europeista. Messo spalle al muro, il Regno Unito reagirebbe da una parte incoraggiando le già vive tentazioni isolazioniste degli Stati Uniti e il loro disimpegno militare dal teatro europeo, così che gli europei dovrebbero spendere grosse somme per difendersi da sé, dall’altra praticando il divide et impera fra i 27 paesi dell’Unione, come fa Putin per portare avanti gli interessi strategici della Russia. Il primo paese che romperebbe la solidarietà anti-Londra è evidentemente l’Irlanda, che non potrebbe accettare di commerciare col Regno Unito, l’unico paese con cui confina, sulla base di dazi e tariffe punitivi. Maltrattare un vicino dotato di armamento nucleare autonomo e di diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, oltre che intimo alleato dell’azionista di maggioranza della Nato, non sembra esattamente nell’interesse dell’Europa.

Coalizione grande ma scomoda
La May, insomma, dispone di carte non trascurabili per mettere in crisi l’egemonia bottegaia della Merkel in Europa. Subito dopo viene Alice Weidel, la candidata alla cancelleria di Alternativa per la Germania in condominio con Alexander Gauland. I sondaggi danno il partito attorno al 9 per cento, decisamente meno dei consensi attorno al 15 per cento che raccoglieva un anno fa, quando la questione dell’immigrazione era caldissima e Frauke Petry era sulla cresta dell’onda. La sua leadership è stata ridimensionata dalle beghe interne del partito e così la prima donna dell’Afd è diventata l’economista Alice Weidel, una manager che ha lavorato per Goldman Sachs e Allianz Global, parla cinese mandarino (perché ha lavorato in Cina sei anni), è unita civilmente alla regista svizzera Sarah Bossard con la quale ha due figli e descrive se stessa come una “ultraliberale”. Nelle dichiarazioni pare però piuttosto un’ultralegalista, che denuncia le istituzioni tedesche che non esercitano il controllo sui confini nazionali e permettono alla Bce di acquistare titoli di Stato a volontà: «Ovunque vedo l’erosione del principio di legalità, è come la sabbia che scivola fra le dita. Non c’è fondamento legale in quel che vedo, e ciò mi innervosisce molto».

L’AfD è accreditato della conquista di una cinquantina di seggi nel prossimo Bundestag, e sarebbe la prima volta che un partito classificato come di estrema destra entra nel parlamento tedesco dopo la Seconda Guerra mondiale. Non è un problema direttamente per l’alleanza Cdu-Csu, accreditata nei sondaggi di un 37 per cento dei voti, col rivale più vicino (la Spd di Schulz, accreditata del 23 per cento) staccato di 14 punti. Ma indirettamente lo è: quest’anno ben sei partiti riusciranno a portare deputati in parlamento, un evento inedito per un paese come la Germania che ha una soglia di sbarramento del 5 per cento. I partiti che la superano vincono un numero di seggi proporzionale ai voti ricevuti, più altri ottenuti ridistribuendo i resti dei partiti che non hanno superato la soglia. Con questo meccanismo alle elezioni del 2013 la Cdu-Csu ha conquistato il 49,4 per cento dei seggi pur avendo ricevuto solo il 45,3 per cento dei voti. Stavolta non sarà così, perché AfD, liberali, verdi e sinistra sono accreditati ciascuno di consensi che stanno fra l’8 e il 10 per cento dei voti. Il successo relativo di questi quattro partiti, due dei quali non avevano ottenuto seggi nel 2013 (AfD e liberali), renderà poco confortevole la grande coalizione Cdu-Csu/Spd, nella quale il partito della Merkel avrà molti meno seggi rispetto a quattro anni fa. Lo spazio di manovra del cancelliere si ridurrà.

Il secessionismo che avanza
Una terza problematica che adesso si intravvede appena ma che potrebbe rapidamente maturare riguarda il secessionismo vivo in alcuni grandi paesi europei e la sua influenza sugli assetti interni tedeschi. Nicola Sturgeon, leader del Partito nazionale scozzese e primo ministro di Scozia, è intenzionata a chiedere un nuovo referendum sull’indipendenza nel 2019, dopo che, teoricamente, si saranno conclusi i negoziati della Brexit. In Catalogna i tentativi di tenere un referendum per l’indipendenza animati dai partiti secessionisti che governano la regione (Junts pel Sí e Cup) stanno per infrangersi contro l’intransigenza del governo di Madrid guidato dal Partito popolare, della Corte costituzionale spagnola e anche del Partito socialista. I cocci potrebbero essere raccolti e ricomposti dalla manovriera sindaca di Barcellona, Ada Colau, fautrice di una linea più legalista verso l’indipendenza.

Queste dinamiche creano problemi alla Merkel per due motivi. Sia la Scozia sia la Catalogna vorrebbero diventare stati indipendenti e integrati all’Unione Europea, ma Bruxelles e i tedeschi non possono accontentarli né per l’una cosa né per l’altra, e questo rafforza il governo di Londra anziché indebolirlo. L’altra ragione di preoccupazione per la Merkel è che ogni eventuale progresso dei secessionismi interni agli stati dell’Unione Europea incoraggerebbe quello bavarese, che comincia a impensierire i tedeschi: una ricerca promossa dal quotidiano Bild ha scoperto, nel luglio scorso, che il 32 per cento dei bavaresi è favorevole all’indipendenza della Baviera, il più esteso dei Land tedeschi, il secondo per numero di abitanti, quello col reddito pro capite più alto dopo le città-stato di Brema e Amburgo. Nonostante che il partito indipendentista bavarese raccolga solo il 2 per cento dei voti locali e che a gennaio la Corte costituzionale tedesca abbia respinto una richiesta di referendum formulata da un singolo cittadino.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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