Liberi perché figli

Come sfuggire al giogo di un’epoca che ci vuole tutti eterni bambini (cioè perfetti consumatori) in preda a ogni capriccio?

Pubblichiamo l’articolo che Giancarlo Ricci, scomparso mercoledì, scrisse per Tempi (qui per abbonarsi) nel maggio 2019.

Difficile oggi, nel tempo della postlibertà ove tutto è possibile, ritrovare traccia di qualcosa che definisca in termini forti e chiari lo statuto di Figlio. Suggestionati ormai dalle promesse delle biotecnologie riproduttive, abbiamo dimenticato che propriamente la riproduzione della specie umana, ossia di esseri parlanti, si chiama filiazione. L’enfasi della “riproduzione biotecnologica” non assicura alcuna libertà se non quella di produrre un nuovo essere vivente (zoé). La filiazione è invece quel dispositivo che nel corso dei secoli si è premurato di situare il figlio nella condizione di una libertà originaria (bìos): originaria in quanto parlata dalla lingua umana, istituita da un diritto e da un sistema simbolico che possa garantire, in nome della soggettività, un «imperativo della differenziazione» (Pierre Legendre, Filiation, 1997). La riproduzione biotecnologica si occupa semplicemente del corpo, del corpo vivo e vegeto. Nella filiazione invece è in gioco quel processo di umanizzazione per cui un corpo è abitato da pensieri, da una memoria, da una genealogia, da un mito dell’origine. La filiazione esige che ci sia una famiglia, una linea genealogica paterna e una materna. La gestione biopolitica della società oscura la questione del figlio, la sua centralità antropologica, culturale e simbolica, il più delle volte relegandola a una faccenda privata, narcisistica, quasi contrattualistica tra due individui che dovrebbero essere un uomo e una donna. Lo smantellamento biotecnologico del dispositivo della filiazione produce la deriva della famiglia e l’indifferenziazione dello statuto di figlio. 

Tre generazioni annodate

Partiamo da lontano. Tra i tanti episodi letterari che evocano lo statuto di figlio e le sue vicissitudini, la fuga da Troia raccontata da Virgilio nell’Eneide è tra i più densi ed emblematici. La città è in fiamme, avvolta da bagliori e clamori. Enea vuole fuggire, mosso dall’idea di fondare un’altra città, Roma. Suo padre, Anchise, vecchio e malato, è deciso a non abbandonare la città, preferisce morire lì dove ha sempre vissuto. Il figlio Enea, sua moglie Creusa, il piccolo figlio Ascanio e tutta la servitù sono disperati. Ma Enea non vuole partire senza il padre. Improvvisamente un prodigio: «Sulla sommità del capo di Iulo (Ascanio) appare un tenue raggio di luce che lambisce la morbida chioma» e subito dopo «un fragore tuonò a sinistra». Il vecchio Anchise, «vinto, si protende verso il cielo e saluta gli dèi». Si rivolge ad Enea: «Ormai non c’è da indugiare; vi seguo, e per dove guidate, vado: dèi patrii, salvate la stirpe, salvate il nipote». Dunque partono. La scena che segue è celebre: Enea con fatica carica sulle spalle suo padre Anchise, stringe per mano il piccolo Ascanio e, seguito a pochi passi dalla sposa Creusa, procede nella notte «per strade segrete». Enea chiede ad Anchise di tenere tra le mani gli «arredi sacri» della famiglia. 

Molti pittori, letterati e saggisti si sono soffermati su questa scena emblematica in cui si annodano tre generazioni con le relative permutazioni: Anchise è al contempo padre e nonno, Enea è figlio e padre, Anchise è figlio e nipote. In una sorta di simultaneità ascendenti e discendenti della linea paterna si annodano in un tutt’uno. Non solo: Uno non può fare a meno dell’Altro. Ogni padre è stato figlio e ogni figlio potrà diventare padre. Questa necessità logica diventerà poi nel cristianesimo uno dei cardini della natura del Figlio. «Chi vede me vede il Padre…».

Un’opera unica

Proviamo ora a fare un salto indietro e a chiederci: perché mai il piccolo Ascanio dovrebbe trovarsi in prima linea con il padre e non invece, molto più prudentemente, in seconda linea protetto tra le braccia della madre? Perché Enea vuole così? La risposta, a mio avviso, è evidente: Enea vuole ormai che Ascanio diventi Figlio e non rimanga Bambino. 

Una seconda considerazione: se Enea non avesse caricato il padre Anchise sulle spalle, quale libertà avrebbe consegnato al figlio Ascanio? Quale dignità, quale orgoglio, quale identità, quale posto nella genealogia della famiglia? Si sarebbe trattato di semplice sopravvivenza. Sicuramente era in gioco anche questa. Ma Virgilio, per via poetica, descrive una libertà che ha una dignità superiore: una conquista, un progetto, l’attraversamento di un rischio, un atto di libertà in cui risuona l’eco di una soggettivazione fondante. 

In definitiva Enea non baratta la sopravvivenza con la libertà; soprattutto non baratta la sopravvivenza del Bambino con la libertà del Figlio. L’auspicata libertà del Figlio è il nome con cui un padre – in questo caso Enea – predispone nella genealogia un posto simbolico da occupare. Come padre combatte affinché quella casella rimanga libera: il Figlio potrà occuparla nel modo che riterrà in base al proprio desiderio e ai propri progetti. Enea non chiede ad Ascanio di diventare anche lui un fondatore di città. Chiede ad Ascanio un’altra cosa: di differenziarsi dalla generazione precedente, di trovare una propria soggettività, di fare della propria esistenza un’opera unica. 

Bambini si nasce, Figli si diventa

Qual è dunque la differenza tra Bambino e Figlio? Ogni nuovo essere che nasce giunge al mondo nello statuto di Bambino, di colui cioè che ha bisogno di essere accudito, nutrito, amato da una madre. Il Bambino è da situare, in questa prima fase, essenzialmente dalla parte del desiderio della madre. Occorre pure che il Bambino, per un dato tempo, rimanga nel gioco speculare – affettivo, corporeo e sensoriale – del desiderio materno.

Eppure, ecco il punto, tutto ciò non è sufficiente affinché un Bambino divenga Figlio (E. Scabini e V. Cigoli, in Vita e Pensiero, 2014). Occorre la presenza terza del padre che metta in gioco il funzionamento (come lo chiama Jacques Lacan) della «metafora paterna» che è quel processo che consente al soggetto, situato in una logica edipica, di «tirarsi fuori dal campo del desiderio della madre» (Lacan).

Ciò non significa, come è stato talvolta frainteso, far fuori la madre, destituirla o depotenziarla. Significa piuttosto attribuirle una funzione non più direttamente accudente e protettiva, ma ben più sottile e altrettanto essenziale alla crescita del Figlio, ossia quella di rappresentare il genere femminile, cosa densa e complessa. Del resto il tema della differenza sessuale, la presenza di una madre e di un padre (e non generici genitori come propone la visione gender) è decisivo nella formazione dell’identità. Gli statuti di madre e di padre sono entrambi indispensabili nella loro differenza, anzi, proprio per la loro differenza. Infatti è in questa feconda differenza che il Bambino diventa Figlio. Si nasce Bambini ma Figli si diventa (se tutto va bene). 

La storia del diritto insegna che lungo e tortuoso è stato il percorso con cui il dispositivo della filiazione è giunto ad assegnare al Figlio uno status di libertà. Per i romani la parola liberi significava figli. Volendo indicare la sacralità di questo termine, in alcuni periodi, il reato di omicidio era punito al pari del parricidio in quanto si riteneva che uccidendo un uomo gli si impediva potenzialmente di diventare padre e di generare figli. Uccidendo un uomo si uccidono i suoi potenziali figli.

Ripetiamolo: il Figlio è libero in quanto è sollecitato a confrontarsi con un’assunzione di responsabilità rispetto alla propria storia. È quella che il giurista Pierre Legendre chiama «imperativo della differenziazione». Che cosa significa? Che a partire dalla filiazione il Figlio possa avere liberamente a disposizione tutti gli strumenti affinché approdi a un’identità che non corrisponda al desiderio dei genitori, al loro auspicio narcisistico più o meno riparatore o compensativo.

Riconquistare l’eredità

Occorre dirlo a chiare lettere: tale «imperativo della differenziazione» dipende molto da quanto i genitori sono in grado di proporsi come padri e come madri. Molte volte mi è capitato di ascoltare in qualche seduta una constatazione triste e irrimediabile: «Ho avuto un bravo genitore, ma non è riuscito ad essere per me un vero padre». Oppure: «Ho avuto una brava madre, ma per tutta la vita mi ha considerato come la sua bambina».

Dunque il Figlio non è un “replicante” ma rompe la specularità, e soprattutto avverte il debito simbolico di aver ricevuto la vita. Il Figlio, proprio in quanto appartenente a una discendenza che istituisce il mito delle origini, potrà costruire il suo particolare senso dell’esistere. Potrà mettersi in gioco in uno scenario storico in cui, come annota Walter Benjamin, avviene un «misterioso incontro tra le generazioni». Al Figlio spetta diventare protagonista di una nuova generazione; è colui che decide di diventare uomo, cittadino, a sua volta padre, dunque di misurarsi infinitamente con l’avventura dell’umano. E di trasmetterla, di restituire qualcosa di ciò che ha ricevuto. Bambini si nasce, Figli si diventa. Bambini si nasce una volta sola. Figli non si smette di diventarlo. Il Figlio è l’emblema di colui che non solo genera la vita (diventando padre) ma che la rigenera incessantemente. 

Ma tutto ciò non avviene “gratuitamente”, non è scontato. Questa libertà da cui il Figlio procede esige responsabilità e non solo. Celebre è il passo di Goethe (dal Faust) che Freud amava citare: «Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero». Ovvero: la libertà donata non è gratuita, non è a titolo di capriccio o di generosità ma la devi riconquistare per farla diventare una tua conquista perenne. 

Si aprono qui infiniti commenti. Appena una nota: questa “riconquista” fa da contrappeso e da misura al tema del debito. Ciascun vivente umano non può fare a meno di confrontarsi con un debito inestinguibile. Fare come se questo debito simbolico non esista significherebbe abolire l’istanza della responsabilità. Significherebbe rimanere Bambini, relegati nell’ambito dell’hortus conclusus delle ambizioni, sequestrati nelle idealità protettive dei genitori. Come se il progetto del futuro si potesse risolvere unicamente in qualcosa di personale e di edonistico e non invece in un progetto che chiama in causa l’orizzonte della comunità, del legame sociale, del lavoro di civiltà. Se non si diventa Figli si rimane Bambini, puer

Adolescenti senza identità

Del resto il puer eterno è la condizione di “anima bella” che la nostra contemporaneità predilige. Il regime neoliberistico la favorisce cercando di produrre il consumatore perfetto, volubile, mutevole, sempre affamato di nuovi piaceri e distrazioni. Di fatto il concetto di figlio nel corso della modernità subisce un lento e impercettibile declino, esattamente come accade alla figura del padre. Da elemento simbolico basilare della società e della sua trasmissione, il figlio viene dimenticato, lasciato nell’indifferenziazione di un’adolescenza perenne. L’inquietante disagio giovanile dei nostri tempi lo dimostra abbondantemente. 

Parallelamente, su un altro lato, l’attuale smontaggio e segmentazione del processo di filiazione – donatrice di ovulo, madre gestatrice, madre sociale, padre biologico, adottivo, eccetera – sembra minacciare il tema dell’identità e rendere inattuale la famosa domanda: “Da dove vengo?”.

Talvolta si dimentica che la nostra civiltà millenaria è forgiata dall’immensa tradizione culturale e morale del monoteismo cristiano, in cui la figura del Figlio – basti pensare al tema dell’Incarnazione, della Generazione o del dibattito teologico sulla sua doppia Natura – risulta assolutamente centrale e imprescindibile, non diversamente del resto dalla figura del Padre. «Il Figlio è generato, non creato». Il cristianesimo, oltre che una “religione del Figlio”, ancor prima di rappresentare una religione risulta storicamente una formazione di civiltà che si fonda sull’elaborazione dell’istanza del Figlio, istanza che esige strutturalmente il legame con il Padre.  

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