L’Europa brucia come Notre-Dame

Giulio Meotti ha scritto un bel libro sull'autodistruzione del nostro continente. Lettera a un amico, con un appunto

Giulio Meotti è un amico e non farò finta di non conoscerlo. Lavora al Foglio da diversi anni, scrive divinamente, ogni suo articolo merita di essere letto, non solo per la prosa scintillante ma perché è uno dei pochi che, pur facendo l’infame mestiere di giornalista, ha qualcosa da dire. “Avere qualcosa da dire”, tu lo sai, Giulio, è davvero cosa rara nel mondo odierno dell’informazione che, come insegna Mastro Giuliano, è dominato dalle ninne nanne del giornalismo collettivo. In un certo senso, io stesso oso nominarmi un “giornalista meottiano”, autodefinizione un po’ ridicola, ma che ha il senso di indicare un comune interesse per certi temi: la demografia, la stanchezza occidentale, il nichilismo islamico e un certo gusto nel passare il coltello sulle cicatrici del perbenismo progressista, così monoliticamente stupido e prevedibile, il più delle volte.

Il Continente che-odia-se-stesso

Meotti ha appena dato alle stampe Notre Dame brucia (Giubilei Regnani, 169 pagine, 13 euro) e, partendo dall’incendio della cattedrale parigina, passa a descrivere il fuoco che sta abbrustolendo l’Europa, il Vecchio Continente che-odia-se-stesso, che rinnega la propria identità, che si vergogna di dirsi cristiano.

«Quello che è successo a Notre-Dame è successo a tutta la civiltà occidentale. Siamo onesti, anche a costo di essere brutali. L’Europa non ridiventerà cristiana domani o dopodomani. È così. Quello che l’uomo distrugge ci vuole molto tempo per ricostruirlo, sempre che sia possibile. Non c’è più alcun immaginario comune occidentale. Non vediamo più gli stessi fantasmi riflessi nel rogo di Notre-Dame».

Nessuno si interroga su niente

Per noi “meottiani” il libro è una goduria: numeri, analisi, citazioni (da Finkielkraut a Sansal) che sono sciabolate al politicamente corretto («che non è altro che un formidabile strumento di egemonia culturale», scrive Meotti), al sonnacchioso pensiero unico dominante, al finto e pavido neutralismo di cui traboccano le dichiarazioni di chi vive coi paraocchi, protetto dall’armatura dei propri pregiudizi («È la gentrificazione: una società chiusa in se stessa, dove i ceti benestanti rimpiazzano quelli popolari, che vive in sicurezza ideologica e in cui l’unico vero problema è che non ci sono problemi e che nessuno si interroga mai su niente»).

«Per ora, il liberalismo culturale sta trionfando, il retaggio giudeo-cristiano è sempre più un reperto archeologico, le nazioni sono superate come le tribù e le identità europee sono sempre più fuse nel magma di un’immensa “classe inutile” senza figli, senza scopo, senza radici, dedita a coltivare il piacere, una iperclasse occidentale figlia della rivoluzione tecnologica, cosmopolita, trasparente, iper connessa, indifferente alla storia che l’ha generata, figlia di un nuovo progressismo ricco alleato delle minoranze in un futuro di high-tech e multikulti che si realizza a Milano, Stoccolma, Barcellona, Londra, Parigi, la costa di Los Angeles, il nord di Chicago, Manhattan, Seattle, Berlino, Bologna e San Francisco, città che hanno più cose in comune fra di sé di quante non ne abbiano con le proprie periferie».

Un fatto non previsto

Meotti è pessimista e anche io non mi sento molto bene. Condivido quel che scrive, ma qui mi permetto, in amicizia e dopo tanti complimenti, di avanzargli un appunto. Se è vero che l’incendio di Notre-Dame è suggestione per parlare della decadente Europa, è anche vero che, proprio in quel giorno, è accaduto un fatto che, almeno a me, continua a far pensare. Mentre il tetto andava a fuoco e milioni di persone rimanevano imbesuite davanti ai loro schermi a commentare l’evento, un manipolo di un centinaio di persone si riunì nei pressi della cattedrale in preghiera. Questo è un fatto che tu, Giulio, non citi mai nel tuo libro – non so se perché lo ritieni così numericamente esiguo da non meritare menzione – ma a me non pare meno significativo di altri, anzi. Soprattutto perché mette in crisi molte mie certezze («l’Europa non è più cristiana», quante volte l’ho scritto?) e molte mie analisi («ma questi da quali catacombe sono spuntati fuori?», mi sono chiesto in maniera un po’ scema).

Tutto il tuo libro è attraversato dal drammatico interrogativo di cosa si possa fare di fronte a una situazione del genere. Se gli europei vivono immemori della storia cristiana che ha forgiato la loro identità, se come zombie girovagano nel Luna Park del continente evitando accuratamente di fare i conti con problematiche apocalittiche come l’immigrazione e la denatalità, se hanno smesso di giudicare perché sotto ricatto di sentirsi denunciare come omofobi, razzisti, sessisti, da dove si può ripartire? È questione questa da affrontare non meno importante della denuncia dello stallo in cui siamo pietrificati.

Sana stranezza

Ecco, Giulio, a me pare che quell’imprevedibile raccolta in preghiera sia un esempio – piccolo, minuscolo, il tempo dirà anche se inutile – di quel che potrebbe essere già oggi un suggerimento di ripresa. Non te le faccio lunga, Giulio, e non mi avventuro su piani teologici e teleologici che non mi competono. Non sono un filosofo né un poeta, ma ti dico che non si può sottovalutare un fatto, ancorché minuscolo come quello. Non fosse altro che per la sua imprevedibilità, sana stranezza, assoluto simbolo di qualcosa d’altro (i nostri progetti, le nostre strategie, le nostre analisi; vogliamo chiamarla “indefessa fede dei semplici”?). Sebbene l’Europa sia anticristiana, moribonda, scarnificata, eppure è accaduto. Anche quello è un segno, da leggere con un po’ di buonumore. Al pari di quello avuto dal famoso buontempone che sul muro dove appariva la scritta: «Dio è morto. Firmato Nietzsche», aggiunse: «Nietzsche è morto. Firmato Dio».

Foto Ansa

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