Si tratta di una decisione storica che, aprendo le porte dell’Eliseo a Crépieux e al suo passo sicuro, nonostante il bastone, apre forse una breccia nell’atteggiamento generale della società contemporanea verso l’handicap e l’umana fragilità. Ed è naturale immaginare che ciò avvenga anche sulla scia lunga della scelta preferenziale di Papa Francesco per gli ultimi e per tutti gli emarginati e gli esclusi dall’imperante «cultura dello scarto». Vedere il volto sorridente di Jean-Pierre, e leggere o ascoltare la sua storia, è un invito potente a superare tutte le etichette e le barriere della discriminazione, secondo le sue stesse parole dette a Radio France Info: «Un disabile è capace di fare molte cose. L’unione dei termini “disabile” e “incapace” è una grande menzogna».
Di «cose», Jean-Pierre Crépieux ne ha fatte, in effetti, di incredibili. Nato nel 1944 a Choisy-le-Roy, cresce tra otto fratelli e, a causa del padre, ha un’infanzia dura e dolorosa. Tra i cinque e i tredici anni vive in un istituto di riabilitazione. Nel 1964 incontra l’ex ufficiale di Marina Jean Vanier che, da pochi mesi con una scelta radicale, ha seguito la sua vocazione: dedicarsi alle persone con disabilità e vivere con loro in totale condivisione. Una strada che lo porterà a diventare esempio di vita e padre spirituale per migliaia di uomini e donne.
Jean-Pierre entra così a far parte della comunità dell’Arca di Trosly-Breuil, in Piccardia, primo anello di una catena che oggi conta 131 case-famiglia dislocate in 34 Paesi. «Sono arrivato — ha ricordato in questi giorni — pensando di restare due settimane, ma sono passati 50 anni». Nel giro di poco tempo, grazie allo spirito di fratellanza che regna all’Arca, Jean-Pierre, detto Pierrot, rivoluziona la propria vita, al fianco di Raphael e Philippe, i primi ragazzi accolti dalla comunità, e ai tanti altri che presto si aggiungono. Supera la timidezza, si apre al prossimo e inizia a cantare di gioia.
«Se Raphael, nel suo silenzio, ci ha insegnato — ha detto Jean Vanier — ad amare con la sola forza del suo sguardo e Philippe amava parlare quanto noi amavamo ascoltarlo, Pierre è stato la musica che rendeva la nostra casa luogo di celebrazione e di gioia. Cantava e cantava in tutte le occasioni di festa. Amava soprattutto le vecchie canzoni parigine». E sul sito dell’Arca, commentando la Legione d’Onore a Jean-Pierre, Vanier aggiunge che «la sua presenza, il suo buon umore, i suoi scherzi e anche la sua serietà hanno contribuito molto a far diventare l’Arca ciò che è: un luogo dove le ferite del cuore vengono curate, un luogo di festa e di lavoro».
Jean-Pierre conquista la consapevolezza della sua dignità e nel 1972 accetta con coraggio di trasferirsi ad Ambleteuse per dar vita a una nuova comunità, Le Tre Fontane. Qui lavora come carpentiere, accoglie i nuovi arrivati, forma i volontari e ha un ruolo decisivo nell’organizzazione della casa. Nel 2009, con l’aiuto dell’amico Michèle Dormal, racconta la propria vita nel libro Je n’ai pas peur de devenir vieux e negli ultimi anni, ormai in pensione, si impegna a diffondere il messaggio rivoluzionario dell’Arca, «una comunità di pace — ha spiegato ancora Vanier — che può testimoniare la possibilità, per uomini e donne di cultura e capacità differenti, di vivere felici insieme, celebrando la comune umanità».
Il premio ricevuto all’Eliseo, dove Pierrot è arrivato accompagnato da molti amici della comunità, dimostra che la visione alla base dell’Arca, nata nel 1964 sull’onda dello spirito conciliare e cresciuta nel decennio delle grandi speranze, è più attuale che mai. A ben vedere, infatti, conclude Vanier, «questa è la visione di Gesù: una società in cui i forti e i deboli hanno bisogno gli uni degli altri».