Legge di Bilancio, tanti vantaggi e pochi sacrifici. Le promesse di Renzi e la realtà

La finanziaria tra l'entusiasmo del premier e le frenate di Padoan. Intervista ad Alberto Brambilla, esperto di welfare: «Quel poco che c’è va usato per aziende e giovani»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

A circa un mese dal varo da parte dell’esecutivo della nuova legge di Bilancio, il testo è ancora sul tavolo dei tecnici di Palazzo Chigi mentre Matteo Renzi ha già iniziato a presentare quelle che saranno le principali misure che comporranno la manovra 2017. Ad ascoltare il premier sembra tutto facile, fattibile, realizzabile, anzi già fatto. Per le partite Iva si è parlato di “rivoluzione”, confermati i circa 350 milioni del bonus per l’aggiornamento professionale degli insegnanti «perché se fai il professore è giusto che lo Stato riconosca la tua funzione». Per i dipendenti pubblici sblocco dei contratti e adeguamento degli stipendi che sono fermi da 7 anni. Non è mancato il solito ritornello del «meno tasse alle imprese», salvo poi rimangiarsi la parola rimandando la promessa del taglio dell’Irpef al 2018. Non è finita qui: promesso il blocco dell’aumento dell’Iva che nel 2017 sarebbe dovuto crescere di 2 punti percentuali, qualche centinaio di milioni (pochi, ma qui la partita è ancora aperta) andranno per le famiglie numerose. E infine le pensioni: «Per le minime l’aumento ci sarà», ha detto il presidente del Consiglio la settimana scorsa a Porta a Porta. Una «sorta di quattordicesima» di circa 50 euro al mese che potrebbe essere liquidata in un’unica soluzione con un assegno aggiuntivo. E questo intervento sarà affiancato anche dall’Ape, la possibilità di lasciare il lavoro in anticipo di tre anni e sette mesi, accettando naturalmente un assegno più basso. Quanto più basso? Secondo Renzi si dovrà «rinunciare a pochino» e allo Stato «costerà un’inezia».

Tutto questo lungo elenco dovrebbe costare allo Stato circa 25 miliardi di euro. Una montagna di soldi che naturalmente a detta del premier sono facilmente reperibili: circa 10 miliardi arriveranno da spending review, rientro capitali, lotta all’evasione e risparmi sugli interessi. E quello che manca? Circa 16 miliardi, un punto di Pil, verranno trovati aumentando il deficit al 2,2-2,3 per cento, contro l’1,4 per cento stimato nell’ultimo Documento di economia e finanza (Def) dell’aprile scorso. Questa era l’ipotesi iniziale, quella che Renzi aveva dato per fatta e che, qualche giorno dopo sempre a Porta a Porta il ministro Padoan ha velocemente smentito: «L’ho convinto a fare scendere il deficit invece che farlo salire, fare salire l’indebitamento sarebbe grave». Insomma, la manovra forse non andrà riscritta, ma certamente trovare le coperture necessarie non sarà facile come vuol far credere il premier.

In attesa del testo definitivo
La nuova legge sarà presentata in Parlamento a metà ottobre e secondo Alberto Brambilla, docente e presidente del Centro studi e ricerche di itinerari previdenziali, contiene alcuni interventi «interessanti e innovati», ma allo stesso tempo «per trovare questi quattrini dobbiamo fare altro debito che inevitabilmente andrà a pesare sulle spalle delle giovani generazioni che hanno già sul gobbo un debito pubblico monstre di 2.343 miliardi. Se si ama questo paese, se abbiamo a cuore il suo futuro e quindi le giovani generazioni, devo dire un no categorico ad alcuni di questi interventi». Prima di entrare nel merito della manovra, il professore spiega a Tempi che servono tre premesse fondamentali per capire gli aspetti positivi e negativi della legge di Stabilità. «Primo: la quantità di debito pubblico ci pone in una situazione molto delicata. Se la manovra o qualsiasi altra decisione dell’esecutivo peggiora questo nostro punto di debolezza, anche un minimo attacco finanziario potrebbe farci soccombere. Secondo: fare debito a spese di qualcun altro è poco etico e poco morale, soprattutto se poi in televisione si parla di “generazione perduta” che va difesa e aiutata e si dice che “bisogna finirla di spendere i soldi dei nostri figli e nipoti”. Infine, va bene spendere in welfare, ma dobbiamo fare in modo che la generazione attuale consumi per quello che ha prodotto e non a debito».

L’AUMENTO DELLE PENSIONI. Nello studio di Bruno Vespa Renzi ha annunciato un aumento di 50 euro al mese da erogare in un’unica soluzione, una quattordicesima per le pensioni minime dal valore di 600 euro. Una soluzione diversa dalle due ipotesi di sostegno ai pensionati che ancora oggi i tecnici di Palazzo Chigi stanno studiando, e cioè alzare la quattordicesima di alcuni anziani (quelli che percepiscono assegni bassi) o comunque allargarne la platea ed estendere la “no tax area”, cioè quel livello fino al quale le pensioni sono esentate dall’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche). Secondo gli analisti la proposta del premier andrebbe a costituire una nuova quattordicesima dal valore più alto di quelle già in vigore e per evitare questo squilibrio Palazzo Chigi potrebbe essere costretto ad erogare 600 euro di pensione a tutti. «Un costo troppo elevato», spiega Brambilla. «In termini di spesa costa meno l’ipotesi originaria. Oggi i beneficiari della quattordicesima sono solo 2.192.756, mentre gli anziani che percepiscono la cosiddetta pensione minima sono circa 8 milioni». Qualche problema il professore lo vede anche per l’ipotesi della “no tax area”: «Sarebbe la strada maestra e più corretta. Ma dal punto di vista economico la “no tax area” costerebbe di più perché interesserebbe, anche se in modo diverso, molti dei 16 milioni di pensionati presenti in Italia».

Legato al tema previdenziale nella legge di Bilancio sarà presente anche l’Ape, la possibilità cioè di anticipare l’uscita dal mondo del lavoro fino a tre anni e sette mesi. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini, ha chiarito che di questa opportunità potranno godere tutti i lavoratori: dipendenti, autonomi, e anche statali o chi un lavoro al momento non ce l’ha. Proprio per questo la penalizzazione sulla pensione potrebbe variare ed essere pari a zero o arrivare anche al 15-20 per cento. Lo stesso Nannicini lo ha confermato in una intervista a Presadiretta: «L’Ape è un istituto ottimo per venire incontro a chi si trova senza lavoro, mentre credo che nei confronti di chi un lavoro ce l’ha e lo vuole lasciare volontariamente, troverà un utilizzo abbastanza limitato». Il giudizio di Brambilla in questo caso è positivo: «Non va ad aumentare il debito pubblico o la spesa corrente quindi va molto bene. Si presenta male perché tira in ballo banche e assicurazioni, non certo ben viste in questo periodo: l’Ape prevede un prestito pensionistico erogato dalle banche tramite l’Inps e assicurato, da restituire in 20 anni. Per quelle 20-25 mila persone, soprattutto di una certa età che non riescono a rientrare nel mondo del lavoro, questo anticipo non peserà molto sull’assegno pensionistico e anche lo Stato dovrà spendere poco. In sostanza si accollerà il costo degli interessi bancari del finanziamento a 20 anni e quello della polizza assicurativa». Diverso il discorso per tutti gli altri: su una pensione di mille euro potrebbero arrivare a rinunciare a cinquanta-sessanta euro al mese per ogni anno di anticipo. Significa che se una persona vuole uscire tre anni prima dovrà rinunciare a 150-200 euro al mese, tra il 15 e il 18 per cento. Non proprio «pochino».

ISEE OPPURE NO? In un recente intervento il presidente dell’Inps Tito Boeri ha detto che «7 volte su 10 la quattordicesima va a persone che povere non sono. Essendo una misura non previdenziale ma assistenziale i contributi non c’entrano, mentre è opportuno usare uno strumento che individui in modo preciso le persone che ne beneficiano». Brambilla è d’accordo. «Questo Isee è molto depotenziato rispetto al precedente ma, siccome i punti da sanare sono molti e le risorse poche, dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione e l’Isee è uno di questi». Naturalmente Palazzo Chigi ha escluso categoricamente l’utilizzo di questo strumento per sforbiciare i beneficiari di questa pensione.

FLAT TAX ALLE IMPRESE. ANZI NO. In un primo momento anche le imprese dovevano godere di qualche beneficio. Il premier aveva promesso quella diminuzione delle tasse che in verità era già stata inserita nella legge di Bilancio 2016 ma che quest’anno non è mai stata applicata. Si tratta di un taglio dell’Ires (Imposta sul reddito delle società) di circa tre punti e mezzo (dal 27,5 per cento al 24). Altra novità era la “flat tax” per circa mezzo milione di imprese che oggi pagano aliquote Irpef molto alte e domani sarebbero state sottoposte ad aliquote non superiori al 24 per cento. Una bella idea che molto più probabilmente sarà congelata fino al 2018 per la mancanza delle risorse economiche necessarie. Brambilla comunque concorda con questa iniziativa: «Se ho pochi soldi meglio usarli per offrire alle aziende una riduzione dell’Ires, delle imposte sostitutive, della burocrazia. Anche la “flat tax” va benissimo, ma credo sia più interessante proseguire con gli incentivi alle assunzioni ma non come è stato fatto con il Jobs act». Al posto della decontribuzione proposta e attuata un paio di anni fa dal governo il professore avrebbe inserito un incentivo alle aziende che assumono ma attraverso un credito di imposta. La differenza è prima di tutto di costo perché la decontribuzione è rivolta a chiunque mentre il credito d’imposta solo alle aziende in utile. «Con il Jobs act abbiamo permesso alle aziende che assumevano un giovane un’altissima percentuale di sconto contributivo (sia quelli a carico dell’azienda sia quelli a carico del lavoratore venivano pagati dallo Stato). È una misura utilizzata anche dalle aziende decotte che per tirare un po’ più in là hanno sfruttano questa misura. Ma una volta terminato il periodo di decontribuzione, siamo certi che le persone assunte non saranno lasciate a casa?».

Il credito d’imposta si rivolgerebbe solo a quel «40 per cento di aziende che in Italia sono dinamiche e se fossero più aiutate riuscirebbero ad ampliarsi, assumere, fare sviluppo e ricerca. Noi dobbiamo puntare su questo settore. Si potrebbe offrire un credito di imposta del 15 per cento per i primi tre anni e poi del 5 per cento fino a una determinata età del lavoratore. Questa misura costa meno della decontribuzione ed è certamente più incisiva: finito il periodo delle agevolazioni possiamo scommettere più tranquillamente che i lavoratori assunti saranno mantenuti nell’organico».

BUONI PASTO E TRASPORTO. Rimanendo in ambito aziendale Brambilla ci tiene anche a sottolineare che in Italia si dovrebbe sfruttare di più il welfare aziendale. È chiaro che il datore di lavoro deve avere la liquidità necessaria per attuarlo, ma anche lo Stato dovrebbe andargli incontro aumentando le soglie degli sgravi fiscali. Oggi, ad esempio, c’è sui buoni pasto ma fino a 5,19 euro. «Bisognerebbe aumentare questa soglia. I buoni pasto, ma anche i buoni trasporto il cui valore è calcolato in proporzione alla distanza casa-azienda, sono due semplici esempi di welfare aziendale. Per il lavoratore sarebbe una sorta di aumento di stipendio e per l’azienda non sarebbe una spesa enorme: invece che spendere 220 euro per offrire un aumento in busta paga di circa 100 euro, con i buoni pasto o trasporto l’azienda spenderebbe solo i 100 euro, una bella spinta per i consumi, quasi tutti interni».

BRICIOLE ALLE PARTITE IVA. Il presidente del Consiglio ha annunciato anche un alleggerimento dei contributi versati dagli autonomi non iscritti agli ordini professionali, una platea «di 500 mila persone». Secondo i calcoli di Renzi arriverà un risparmio di «circa mille euro l’anno», in pratica gli 80 euro che percepiscono sotto altra forma i lavoratori dipendenti. I giornali hanno scritto di “rivoluzione”, in realtà si tratta di uno sconto sull’aliquota contributiva di circa 2 punti percentuali, da 27 per cento a 25. «Quando ci sono pochi soldi è sempre meglio di niente, ma non parliamo di rivoluzione. Per chi ha una partita Iva sarebbe stato meglio inserire dei superammortamenti o degli ammortamenti anticipati. Il vero problema di chi comincia a lavorare in proprio è che deve comprare l’attrezzatura necessaria e magari all’inizio deve fare investimenti molto elevati, ma lo Stato non ne tiene conto: paghi le tasse sul tuo fatturato senza tenere conto delle spese effettuate. Il primo anno per pagare le tasse sei costretto a chiedere in prestito i soldi, è una situazione insostenibile. Io credo che l’ammortamento sulle spese per attrezzature e macchinari debba essere calcolato su 2 o 3 anni, non di più. Se un ragazzo fattura 20 mila euro l’anno, il 30 per cento va in contributi, magari altri 10 mila per pagare le attrezzature, con che soldi paga le tasse? Se si vogliono incentivare le parite Iva questo alleggerimento dei contributi va bene ma non basta, bisogna inserire strumenti come superammortamenti o ammortamenti anticipati che la maggior parte degli altri paesi ha».

QUANTO COSTA IL WELFARE STATE? Attraverso il Centro studi e ricerche di itinerari previdenziali, Brambilla ha calcolato che per pagare tutta la spesa sociale, tra pensioni, assistenza e sanità, nel 2014 sono serviti circa 440 miliardi e quest’anno la spesa dovrebbe essere un po’ più alta. Per trovare tutti quei soldi «servono tutti i contributi previdenziali, tutta l’Irpef addizionali comprese, tutta l’Irap e poi l’Ires e l’Isos. Allora i famosi tagli alle tasse sulle aziende non capisco come potranno essere confermati. E comunque mancherebbero all’appello ancora 16 miliardi di euro. Vuol dire che le imposte dirette non bastano nemmeno a coprire i costi. E allora si passa alle imposte indirette, cioè Iva, accise, benzina, monopoli. Questo secondo me è sbagliatissimo. Un miliardo speso in welfare è speso bene, ma produce pochi consumi. Se diamo 600 euro in più al pensionato li userà certamente per fare la spesa. Se invece si puntasse ad esempio sulle assunzioni dei giovani, magari spendendo 500 euro per facilitare un nuovo contratto a tempo indeterminato, lo Stato avrebbe un ritorno maggiore: un occupato in più che non dovrà più essere assistito e che versa le imposte dirette che prima non versava. Il vantaggio tra un investimento in occupazione e sviluppo e quello invece per sostenere la spesa corrente è abissale». È abbastanza facile da capire. E tuttavia Renzi e il suo esecutivo sembrano avere optato per aumentare la spesa del welfare. Alle imprese e alle nuove generazioni ci penseranno un altra volta.

@daniguarne

Foto Ansa

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