Le campane del venerdì

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Quel venerdì la signora A. era di pessimo umore. Aveva avuto una discussione con un anziano e stimato collega, uno di quelli, si era resa conto, che con la vecchiaia peggiorano. Uno di quelli che, essendo vecchio, crede che anche il mondo stia finendo con lui. Che stia finendo la Chiesa, e il cristianesimo, perché lui ormai ha già visto e capito tutto, e ogni cosa gli risulta scontata. Dunque la signora A., uscita da quell’incontro veramente nera, nel suo studio faticava a mettere insieme le righe di un pezzo che doveva consegnare al suo giornale in serata. Molesto, il ricordo della discussione le ritornava in mente – con quell’inevitabile strascico dei timidi, poi, che al momento non trovano le parole, e dopo un’ora le ritrovano, e anche troppo.

Attorno, la casa nel pomeriggio era silenziosa, gli occhi verdi dei gatti come sempre enigmatici, il cane addormentato sul tappeto. Le parole dell’articolo ad A. uscivano a stento, due per volta, giacché non stava pensando davvero a ciò che stava scrivendo. Dalla finestra affacciata su un cortile entrava il chiarore grigio di un cielo di pioggia. Tutto era immobile e muto.

Quel silenzio fu improvvisamente spezzato da un rintocco di campane. Tocchi lenti, battuti adagio da un campanile non lontano. Le tre del pomeriggio di venerdì, si ricordò allora A., e alzati gli occhi dal pc se ne rimase assorta a ascoltare. Sembravano onde, quelle note basse, che si allargassero sulla città in cerchi concentrici, come quando un sasso cade nell’acqua. Allora, pure distratta com’era quel giorno, la signora A. si ritrovò a pensare che cosa commemoravano quei dolenti rintocchi che da secoli risuonano nelle nostre città, il venerdì, alle tre.

La morte di Cristo. La inaudita morte del figlio di Dio. Messo in croce, massacrato, deriso, sputato. Salito su quella croce per sanare il folle, sconfinato male degli uomini. Per portarlo con sé nella notte degli inferi, in quell’aria buia e densa di dolore. Per essere seppellito dentro a quel male, nell’infinito risonare, forse, di tutti i pianti e le grida degli uomini nei millenni. Di tutti i pianti dei bambini. Nel respiro ancora dei loro gemiti, del loro morire da agnelli.

Nel rintoccare delle campane A. provò in sé una gran pena, una desolata tristezza, e le parve di trovarsi in un deserto, di respirarne l’aria secca e riarsa. Infine, tacquero. Che cosa è stato, quel giorno, pensava A., e che immane peso ha, quell’uomo, sulle sue spalle portato. Ma è risorto: tutto il nostro male non lo ha annientato.

A. pensò a Maddalena, e al suo sussulto nel vedere la pietra del sepolcro rotolata. Al suo incolmabile pianto – pensate, credere che Cristo sia morto per sempre – e alla sua gioia indescrivibile, vedendoselo, vivo, davanti.

La rabbia di poco prima sembrò ora a A. una piccola cosa ridicola. Il tocco delle campane del venerdì l’aveva come guarita. Bisognerebbe pensare alla Pasqua ogni giorno, si disse A. Per non essere sciocchi, e non perdersi in cose da poco.

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