L’attesa in ospedale e il nodo dei destini di Niguarda

Milano, ottobre. Ogni volta che ci passo davanti l’ospedale di Niguarda, alla periferia nord della città, mi sembra un altare; un imponente candido altare alla sofferenza, i marmi squadrati nella durezza dell’architettura littoria. Recentemente però ho scoperto che il vecchio ospedale ha un’ala tutta nuova: luminosa, ampia, simile a un atrio di aeroporto, con bar e negozi, e vetrine accattivanti. Sopra agli sportelli i pannelli elettronici segnalano il numero del paziente convocato; sì, pare proprio un aeroporto, con le indicazioni dei gates che chiamano i viaggiatori al loro volo. Io, ho in mano un bigliettino con su scritto: B55. Manca molto. Guardo nella folla le facce. C’è una giovane coppia con un bambino piccolissimo. Padre e madre sorridono fra loro; solo un controllo, e quei tre certo se ne andranno subito di qui, verso una vita tutta da cominciare. Mi impensierisce di più, davanti a me, una bella signora elegante, abbronzata. Indossa sobri ma rigorosamente veri gioielli, in mano ha una rivista che non apre nemmeno. Estrae il cellulare e nervosamente digita un numero; nessuno le risponde. Lei stropiccia in mano il numero dell’attesa fino a appallottolarlo. Un esame, che esame? La bella signora non vede nemmeno quelli che ha attorno.

E questi due, madre e figlio, con una valigia e l’accento calabrese? Sembrano impressionati dal grande ospedale, dalla chiara efficienza, dal veloce andirivieni della folla frettolosa. Guardano e riguardano, come temendo di scordarlo, il loro numerino. Il malato dev’essere il ragazzo, direi, da come la donna lo guarda con ansia, e premurosa lo fa sedere. E si spengono e si accendono i numeri sugli sportelli, e ognuno va verso il suo destino. C’è chi riceve una busta e la apre in fretta, legge, e di buon passo se ne torna fuori, fra i sani. C’è chi viene indirizzato dentro al grande ospedale; e, inesperto, in quel labirinto esita, domanda a un infermiere e quello allunga un dito: giù, per di là, in fondo, e indica un corridoio molto lungo e un po’ buio. In fondo, un ascensore chiude silenzioso le sue porte automatiche dietro allo sconosciuto. Che piano? Quale reparto?

Questo aeroporto che ci smista ad uno ad uno mi dà una strana pena; sembriamo, nell’incrocio dei destini, così soli. Tocca a me, ora; apro con impazienza la mia busta, leggo; poi, soddisfatta come uno scolaro che ha passato un esame, mi avvio svelta all’uscita.

Prima di allontanarmi però mi volto verso il grande altare bianco; mi sembra che mi guardi indifferente. Come dicesse: vai pure, tanto, un giorno, qui dovrete ritornare tutti. Gente che va, gente che arriva a Niguarda, il verde che scatta, il tram numero 4 che scampanella spazientito. Un vecchio cammina male, quasi cade. Io dovrei essere contenta, e sono amara. (Trovo maledettamente difficile, lo ammetto, riconoscere nelle mie giornate la concretezza di Dio. Per esempio, mi chiedo, oggi, in questo nodo di destini in un grande ospedale, tu, esattamente, dov’eri?).

Sulla strada ormai buia mi viene in mente Agostino: «In interiore homine habitat Veritas». Nel gomitolo di destini di Niguarda lui in ognuno di noi, nel vertice più profondo, strenua radice. Forse bisogna star zitti, e ascoltare. Per vedere davvero, forse occorre pregare.

41/2012

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