Vizi e virtù del potere

Rav Laras: Tito Livio, Tacito, Cassio Dione e Svetonio mostrano che l’empietà al governo è un fatto tutt’altro che straordinario. Soprattutto quando il governo è affidato a uomini meno che ordinari

Questo articolo di rav Giuseppe Laras, presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia e rabbino capo emerito della comunità ebraica di Milano, è tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) e fa parte della serie “Idee per respirare”

La pausa estiva è un’occasione propizia per le letture o, come nel mio caso, per le “riletture”. Con il trascorrere del tempo, mi sono reso conto di trovarmi a rileggere sempre, nei momenti (rari) di quiete prolungata, classici della storia antica, greca e romana. Non si tratta soltanto di stantia erudizione, oppure di passione archeologica nei confronti della Classicità, radice e cardine, assieme alla Bibbia, di ciò che noi oggi siamo.

Ho sempre trovato avvincenti i racconti degli storici antichi, in particolare quelli riguardanti le antichità romane. Nel corso dell’anno mi capita non di rado di sfogliare qualche pagina, di riconsiderare un tale fatto, di meditare su un determinato episodio, magari in qualche modo archetipico. Tuttavia, mi è impossibile sostare a lungo, debitamente, su dette pagine: questo è riservato agli ozii estivi.

La domanda che vi farete – e che mi sono fatto anch’io molte volte – è: “che cosa rende leggibili oggi questi scritti?”. Vorrei, allora, ammesso che la mia risposta sia “praticabile”, offrire alcuni stimoli per caldeggiare (e, in estate, il verbo è forse eccessivo) la lettura di alcuni storici latini.

In primo luogo, vi è l’indubbio fascino che esercita su un italiano la storia dell’antica Roma: luoghi che noi oggi conosciamo e abitiamo, furono altrimenti: talora permangono quasi immutati, spesso, al contrario, sono irriconoscibili. Eppure, nella discontinuità, vi è continuità. In quanto italiani, le vicende repubblicane e imperiali non ci sono estranee, ma, inevitabilmente, intrinseche. La storia di Roma, poi, è stata più volte soggetta a “riuso” nel corso della storia occidentale. In alcuni casi, essa ebbe modo di fungere da sprone positivo, specie nel corso della Rinascenza italiana e, successivamente, negli ambienti culturali e politici anglosassoni. In altre occasioni, al contrario, le vicende di Roma hanno eccitato, anche recentemente, menti perverse, con storie nefaste, sofferenze indicibili e rovinose cadute. È innegabile, tuttavia, che per l’uomo di genio, che crea e che governa, che modifica il Creato e che lo rende fruibile per una migliorata esistenza umana in ambienti spesso inospitali, la grandezza civilizzatrice di Roma, con le sue strade e i suoi acquedotti, con i suoi ingegneri e i suoi fori, con i suoi commerci e con l’universalità della lingua latina, eserciti una forza attrattiva unica. Al contempo, questa storia, per essere tale, fu intrinsecamente, e non per accidente, anche una storia di soprusi e di violenze, di arbitrio e di persecuzione, di schiavitù e di sfruttamento. La percezione della Roma antica, per i cristiani, è probabilmente sospesa tra la memoria della persecuzione e la cristianizzazione dell’Impero. Per gli ebrei, il ricordo di Roma evoca inevitabilmente la sconfitta, la distruzione, la dispersione e il rischio di annientamento.

I grandi storici latini, tra cui, in particolare, consiglio la lettura di Tito Livio, Tacito, Cassio Dione e Svetonio, ci narrano le vicende degli imperatori, per lo più individui meno che ordinari ricoprenti ruoli straordinari. Basti ricordare Tiberio, Nerone, Caligola e Domiziano. Questo è il secondo motivo per cui la storia di Roma va a calamitare la mia attenzione: l’empietà al governo è un fatto possibile, tutt’altro che occasionale o raro. Esso si declina in molti modi.

Il primo modo riguarda l’individuo mediocre, che si trova a esercitare il potere: non potendo tollerare l’eccellenza, perché quest’ultima inevitabilmente smaschera la mediocrità e la elide, l’uomo mediocre si dimostra instabile, ossessionato, perverso, intollerante, crudele e repressivo. Vi è poi l’uomo folle, governato dalle sue passioni e dalle mutevoli passioni del popolo. Vi è l’uomo di potere, ma intemperante, innamorato del suo stesso potere e con personalità narcisistica, incapace di ascoltare e spietato. Vi sono stati, altrettanto devastanti, uomini deboli e incapaci, laddove l’ignavia e la mancanza di nerbo hanno portato molte sciagure. Vi furono poi i grandi corruttori, che compresero, impiegandola senza freno, la forza subdola che la corruzione è in grado di esercitare su moltissimi esseri umani, devastante la dignità del corrotto, comprato forse ma mai fedele. Molte delle personalità ritratte furono individui che si contraddistinsero per crudele ferocia e barbarie, omicidio e disprezzo degli esseri umani.

Se l’errore diventa ethos
Tutto questo scorre dinanzi a noi, fortunatamente abbastanza lontani da quei fatti, mentre leggiamo le cronache riportate dagli storici prima ricordati. E molte domande si affastellano: come può un uomo – o alcuni uomini – così irresponsabilmente ridurre ad arbitrio la propria libertà? Come può un’istituzione, con i suoi svariati centri di potere e di controllo, tollerare l’ascesa progressiva di esseri umani indegni e pericolosi? Fino a che punto – e a quali prezzi – i gruppi di potere possono tollerare l’intollerabile, e talvolta persino favorirlo, anche se si tratta di un’attitudine alla lunga suicida, incapace di tracciare il futuro e preoccupata solo di appoggiarsi al piolo dell’istante? Come è possibile che con la grandezza, la prosperità, la tecnica progredita e la cultura raffinata – comunque sempre preferibili al bon sauvage e ai suoi ideologici sostenitori nel corso di ogni epoca – possano accompagnarsi, senza troppi imbarazzi, la sopraffazione e la ferocia? Come può essere possibile, infine, che, dinanzi all’intollerabile, dilaghi spesso, piuttosto che l’impegno personale e la buona determinazione, una sorta di rassegnazione, di “schiavitù volontaria” e di “soumission”? Com’è possibile che, tutto sommato, basti poco, molto poco, per la rapida regressione dalla convivenza civile, pur gravata e viziata sempre da molte difficoltà, carenze e contraddizioni, alla barbarie e al despotismo, perdendo in maniera subitanea quanto ha invece richiesto molto tempo per essere costruito?

Quanto narrato da Cassio Dione, Tacito e Svetonio ci interroga con ulteriore domanda, inevitabile: “come è possibile che i vari Nerone, Caligola, Domiziano et alii, potessero pensare, a fronte delle nefandezze compiute, di restare impuniti, di non pagare in questo mondo il fio, di non sollevare, cioè, presto o tardi, una reazione inevitabile che li distruggesse?”. Congiure, intrighi, tradimento, terrore e uccisioni furono quello che puntualmente ottennero. Come può un uomo essere tanto cieco da non comprenderlo, se non per imperativo morale perlomeno per calcolo e strategia? Cosa ha inquinato e ottuso così potentemente l’intelletto di queste persone? Al riguardo mi sovviene la risposta che, in relazione ad alcuni passi biblici riguardanti personaggi crudeli e pervicacemente omicidi quali, ad esempio, il Faraone, ebbe a offrire il grande Mosé Maimonide: se una persona si radica, iterandolo costantemente, in un comportamento gravemente erroneo, sì che questo comportamento diventa per la persona un ethos, uno stile di vita, per costei diverrà impossibile – o quasi – potersene pentire. L’abitudine malvagia alla lunga vizia e scalfisce, erodendola, la nostra libertà, che nel momento in cui è ridotta a mero arbitrio inizia a consumarsi e dissolversi.

Quei valori dimenticati
Vi è, infine, un altro apprezzabile motivo per cui è significativo, specie oggi, leggere Tito Livio, Cassio Dione, Svetonio e Tacito. Si tratta, nel procedere della lettura e della riflessione su di essa, dell’educazione alla “virtù”. Molte delle “virtù eroiche” espresse dalla cultura greca nei miti, ricompaiono in veste “storica” nelle virtù celebrate dagli antichi latini, talora riformulate e accostate a valori propri della romanità. Alcune “virtù eroiche” confliggono con le “virtù bibliche”, altre, invece, pur non sovrapponendosi completamente a quelle bibliche-ebraiche, hanno possibilità di parziale traduzione e integrazione. Si tratta di “virtù” che una certa recente cosiddetta “cultura” ha cercato di divellere o comunque di ridimensionare in seno all’orizzonte valoriale occidentale, con risultati devastanti. Mi riferisco ai seguenti valori, raramente ricordati: fedeltà alla parola data, lealtà, fermezza, coraggio, tenacia, costanza, saldezza, rigore, austerità, severità.

Non so se queste mie considerazioni abbiano allontanato, piuttosto che avvicinato, i potenziali nuovi lettori degli antichi Classici. È probabile che si trovi legittimamente tutto questo noioso e, forse, inattuale. Se, in relazione all’attualità di questi scritti, sono sinceramente convinto che la risposta sia positiva, circa, invece, la “noiosità” eventuale degli stessi, i gusti di ciascuno in materia sono eterogenei e spesso stravaganti. Assumendo la mia personale stravaganza, spero che i temi “caldi” ricordati non vadano troppo a ulteriormente provare i lettori di Tempi nel bel mezzo delle arsure estive. Buona estate!

Foto statua Nerone da Shutterstock

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